“Monnezza” al tempo di Goethe
di Paolo Abbate | BlogTutti questi cumuli di monnezza non raccolta per le strade, presentano rifiuti indifferenziati di ogni tipo come ferro, plastica, vetro, cartone, materiali ingombranti etc. e tanto, ma tanto organico. Il cosiddetto umido, che è quello che imputridisce emanando cattivo odore, è composto essenzialmente da scarti di cucina e di bottega, che aumenta in modo impressionante nelle vicinanze di erbivendolo o di mercato: bucce, torsoli, pane, foglie, frutta e così via.
Allora oltre ai campi che circondavano la città vi erano numerosi orti intra moenia. Retaggio degli antichi orti-giardini diffusi fin dai tempi dei greci e romani, servivano a fornire frutta e verdura agli abitanti delle case e ville in città, rendendoli autosufficienti. Di queste aree verdi dietro le case ve ne sono ancora tante anche nei paesi cilentani, dove naturalmente non siano stati cementati. Potrebbero servire a produrre compost per il giardino stesso e abbasserebbero oltretutto la famosa tassa sui rifiuti.
Purtroppo in tempi di industrializzazione e di economia di mercato esasperate, le antiche consuetudini vanno scomparendo velocemente, anzi sono quasi del tutto scomparse.

Ma ecco cosa racconta Goethe, eccezionale viaggiatore del Grand Tour, nel 1787.
Lo spettacoloso consumo di verdura fa sì che gran parte dei rifiuti cittadini consista di torsoli e foglie di cavolfiori, broccoli, carciofi, verze, insalata e aglio; e sono rifiuti straordinariamente ricercati. I due grossi canestri flessibili che gli asini portano appesi al dorso vengono non solo inzeppati fino all’orlo, ma su ciascuno d’essi viene eretto con perizia un cumulo imponente.
Nessun orto può fare a meno dell’asino. Per tutto il giorno un servo, un garzone, a volte il padrone stesso vanno e vengono senza tregua dalla città, che ad ogni ora costituisce una miniera preziosa. E con quanta cura raccattano lo sterco dei cavalli e dei muli!
A malincuore abbandonano le strade quando si fa buio, e i ricchi che a mezzanotte escono dall’opera certo non pensano che già prima dello spuntar dell’alba qualcuno si metterà a inseguire diligentemente le tracce dei loro cavalli. A quanto m’hanno assicurato, se due o tre di questi uomini, di comune accordo, comprano un asino e affittano da un medio possidente un palmo di terra in cui piantar cavoli, in breve tempo, lavorando sodo in questo clima propizio dove la vegetazione cresce inarrestabile, riescono a sviluppare considerevolmente la loro attività.
Ma non solo l’umido – ci racconta ancora Goethe – veniva riutilizzato sapientemente: anche altri tipi di rifiuti venivano raccolti da “rivenduglioli girovaghi”. Non si trattava “di merce vera e propria come quella che si trova nelle botteghe, ma di autentico ciarpame”. Si tratta veramente di raccolta differenziata di rifiuti. Non c’è, infatti “pezzettino inutilizzato di ferro, cuoio, tela, feltro ecc. che non sia messo in vendita da questi robivecchi e non sia comprata da l’uno o dall’altro”.
Davanti a questa allegra e utile operosità, Goethe ne deduce che i napoletani non sono dediti all’ozio, come si crede, e che non si può parlare di essi come scioperati e perdigiorno. “Sarei tentato di affermare per paradosso che a Napoli, fatte le debite proporzioni, la classi più basse sono le più industriose”. Ci si industriava, quindi, per vivere e non si viveva per produrre di più, consumare sempre di più e spargere i rifiuti nell’ambiente.
La Napoli visitata da Goethe era ben diversa da quella di adesso, dove la grande maggioranza dei napoletani, ricchi e poveri, giovani e vecchi, acculturati e non, buttano ancora tranquillamente nei contenitori o in strada le loro buste contenenti di tutto.
Come si fa d’altra parte anche nei centri cilentani, dove mucchi di rifiuti indifferenziati compaiono dappertutto.
Nostalgia del passato? Non precisamente. Senza una cultura che veda l’ecologia come nuovo modello di vita, i mucchi per strada di spazzatura rappresentano una responsabilità palese non solo della camorra e delle istituzioni ma anche della gente.
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