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RIFLESSIONI SUL “CEMENTIFICIO” DI SAPRI

📅 martedì 25 settembre 2012 · 📰 AmbienteSapri

cementificio di sapri art
Credits Foto OpEd

Riceviamo e pubblichiamo:

Una bizzarra manifestazione si è svolta sabato 15 settembre presso l’aula consiliare del comune di Sapri. Protagonisti un giovane architetto e tre docenti della Facoltà di Architettura della Federico II di Napoli, due dei quali relatori della tesi di laurea del giovane professionista.
Tesi che aveva per oggetto la riqualificazione del lungomare della cittadina cilentana e in particolare del mostruoso, e non solo per le dimensioni, scheletro del mancato cementificio, rimasto interrotto allo stato di incombente e assai tetra “foresta” di pilastri grigiastri dal lontano 1953, a quanto ci è stato detto.
È noto che da tempo si è sviluppato a Sapri un serrato dibattito tra i sostenitori dell’abbattimento del “mostro” e i sostenitori della riqualificazione e del riuso dello stesso. La manifestazione di sabato aveva lo scopo di fornire un autorevole assist, certificato appunto dall’autorità accademica, alla tesi del riuso, naturalmente a destinazione scientifica e culturale e con qualche concessione di tipo “ambientale”, inevitabile ormai di questi tempi, prevedendo cioè qualche lembo, più o meno esteso, di verde pubblico.

Non entro nel merito delle tesi diciamo così tecniche (il costo elevato dell’abbattimento e dello smaltimento dei detriti; l’impiego delle fibre di carbonio per il consolidamento dei pilastri) sulle quali dichiaro la mia incompetenza; ma credo basti informarsi più a fondo per convincersi della loro sostanziale inconsistenza, tanto più che la tecnica delle fibre di carbonio, oltre ad avere costi assai alti, non è ancora completamente sicura e sperimentata.
Vengo invece alle considerazioni estetico-culturali messe in campo dai relatori e da qualche intervento del pubblico, in quanto toccano questioni che mi sono più congeniali.

Primo punto: in un intervento del pubblico lo scheletro è stato definito “un’opera d’arte”: a me sembra piuttosto un’ingombrante mostruosità, ma qui siamo nel campo opinabile del giudizio estetico e ognuno si prende la responsabilità del proprio.

Secondo punto e qui siamo nel campo delle varie aberrazioni buttate sul piatto della bilancia: l’edificio (ma in realtà si tratta di un non edificio) è stato definito un esempio di archeologia industriale, e in una zona, aggiungo, che in effetti non ne conserva molti. Ma per definirsi tale, lo sanno anche gli studenti di primo anno all’Università, un complesso deve aver funzionato e prodotto, mentre qui siamo allo stato
di scheletro incompiuto che mai dunque è entrato in funzione.

Terzo punto, francamente il più bizzarro: con voli molto lirici uno dei relatori ha magnificato, del “rudere” o dello scheletro, o come si voglia chiamarlo, la valenza paesaggistica: trattandosi infatti di una struttura “aperta” e trasparente, il paesaggio lo si può leggere, ovvero “gustare”, attraverso la griglia, appunto aperta, dei pilastri. Già, ma il guaio è che il paesaggio diventa assai meno gustoso se lo si guarda non dall’interno della griglia dell’edificio, ma guardando l’edificio stesso dall’esterno, anche quando il rudere sarà stato completato e trasformato in un edificio vero.
Tralascio le affermazioni sulla pittura di paesaggio e sulle vedute settecentesche (e ottocentesche) sulle quali forse il collega della facoltà di Architettura non sembra molto ferrato.
Allora? Il problema non è “riqualificare” e riusare, a qualsiasi scopo, il “mostro” (e si vocifera che il reale progetto sia quello di un grande albergo: ma quale imprenditore serio si cimenterà in una avventura del genere, dovendo necessariamente abbattere e ricostruire, e per una struttura ricettizia destinata, è facile previsione, a restare in gran parte vuota?) ma quello di sanare la ferita inferta sessant’anni fa al territorio e restituire quella fetta di Sapri alla sua vocazione naturalistica. Tutt’al più si potrebbe salvare, se tecnicamente possibile, una piccola parte, e a un solo piano, dell’edificio, ma rigorosamente immersa nel verde, per un utilizzo culturale (un auditorium per esempio) o economico-sociale (un mercatino per i produttori locali a chilometro zero).


Prof. Francesco Abbate

Docente emerito di Storia dell’Arte presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università del Salento, Lecce e
Presidente del Centro Studi sulla civiltà artistica nell’Italia meridionale.



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