Libri - Enzo Amoruso: “Assassini brava gente”
di Bianca Fasano | Blog“Per rispettare la giustizia bisogna infrangerla” dice l’autore all’inizio di questo suo secondo lavoro letterario.
A leggere le prime righe del romanzo sembra chiaro fin da subito di trovarsi di fronte ad un assassino in libertà: -“Emblematico è il mio caso, difatti, uno soltanto delle migliaia di casi insoluti mi riguarda molto da vicino, quel pedofilo… lo uccisi io”-
Ma con Amoruso occorre stare attenti. La sua filosofia di “scompigliare i rapporti tra letteratura e vita, fra verosimile e assurdo, tra fantasia e realtà.” non ci permette di porre una linea di demarcazione tra dove finisca la storia dell’autore e l’autore stesso. Questo mi è sempre stato chiaro: in un testo letterario confluiscono verità e fantasia, esperienze personali ed acquisite ed è una linea fragile, scomposta, frammentata, saltuaria, a definire le une e le altre. Un omicida, ritiene giustamente Amoruso, dopo avere compiuto impunemente il suo delitto ed essersi sentito “un dio”, deve scomparire, deve divenire una persona estremamente riservata. giusto: occorre dire che il “buon criminale”, cerca di essere sempre a posto con le tasse, non eccedere in velocità, non farsi prendere in fragrante per “delitti” minori. Così può muoversi bene e commetterne di maggiori. Non dimentichiamo Al Capone rinviato a giudizio per evasione fiscale. Ma Amoruso, per consolare il lettore del fatto che il criminale scompaia alla giustizia terrena, ricorda le parole di Manzoni contenenti la speranza che il buon Dio “gli farà pagare un più pronto e più terribile fio”. Nell’aldilà.
Non ha paura della morte il personaggio principale (lo scrittore stesso?), il quale ogni mattina deve camminare per quattro o cinque chilometri, su ordine del medico, per restare in vita dopo i tre by pass subiti. Quei chilometri che lo porteranno a ritardare, al mattino, l’appuntamento con un amico ritrovato dopo un oceano di tempo, che intende raccontargli “una lunga storia”, di cui intende regalargli il brevetto. Lui ci andrà, puntualmente per molti giorni, al mattino, munito di un registratore, ma soltanto dopo:- “… i miei soliti quattro passi per il Vomero” in ubbidienza al medico. Una storia, quella che registrerà, ascolterà e metterà su carta, non più con la sua “lettera 22”, ma con un moderno P.C.
Comincia così, al Vomero, sotto il portone di casa, l’avventura gialla del nostro romanziere, che lo porterà, con il ricordo dell’amico “Franco Sarno”, da Napoli in una delle splendide isole delle Cayman: la Grand Cayman”.
Il nostro autore è, appunto, un napoletano del Vomero, nono di dieci figli di un’importante famiglia di costruttori edili. La famiglia di nascita non a caso viene ricordata giacché –“L’idea di scrivere un romanzo mi è nata quasi per caso durante lo scavo per le fondamenta di un fabbricato in Piazza medaglie d’oro, al Vomero, nel 1960 da parte dell’impresa edile di mio padre. un ritrovamento sembrò aprire la strada ad una suggestiva ipotesi storica (quel terreno era stato occupato dai tedeschi dal 1943 al 1945) e mai avrei potuto immaginare, neppure lontanamente, quale strana storia avessero potuto portare alla luce quei piccoli dipinti”- ecco che una volta di più realtà e fantasia si mescolano, nel momento che il ritrovamento si “sposta”, nel racconto, a quello fatto da “Franco” per mezzo del giardiniere di un Hotel, laddove, in una tela incerata, viene ritrovata una scatola di metallo contenete dei dipinti che, infine, sono attribuiti ad Hitler. La stranezza del ritrovamento sta nel fatto che i dipinti, su mattonella, rappresentano, assieme alla porta di Brandeburgo, presente prima della “morte di Hitler”, anche il muro di Berlino, venuto dopo.
Ma tutto ciò dopo un’altra lunga storia che “l’interlocutore muto”, ossia il libro, come veniva definito da Derrida, vi avrà accompagnati puntualmente ad ogni incontro dei due amici, ad ogni registrazione, dal presente al passato, in una altalena fantastica.
Non voglio raccontarvi, ovviamente, l’intera vicenda e neanche riesco a discernere, nell’abile gioco di “realtà e fantasia” di Amoruso, ciò che è vero, dal falso, fatto sta che egli stesso (il personaggio dell’autore, almeno), gioca a confondere l’Enzo Amoruso (vero), con l’Enzo del racconto, il quale alla fine sconcerta dicendo che entrambi, ossia Enzo e Franco, siano la stessa persona, ovvero un “dottor Jekyll e signor Hyde”, un doppio, uno sdoppiamento letterario. nella storia non manca l’amore, vero o falso che sia, il quale sembra persistere e raggiungere il presente, nel volto della moglie (vera) di Amoruso.
Ma, a cavallo della fantasia, un consiglio: tenetevi ben stretti alla sella se volete raggiungere la fine del romanzo (ammesso che una vera fine esista), senza perdervi nell’abile gioco dello scrittore che, fingendo di raccontarvi di delitti fasulli, forse vi racconta di veri o, magari, fingendo di raccontarvi di fasulli che sono veri, gioca, divertendosi, con le vostre capacità di districarvi nella narrazione.- Portavo nella tasca interna sinistra della giacca o del cappotto, a seconda delle circostanze, un giravite lungo e sottile, (…) lo poggiavo nella narice destra del malcapitato e attraverso la fossa nasale lo spingevo in profondità nella direzione dell’occipite, entrava come il burro.”







