“Del Cilento e del suo dialetto”, un prezioso documento sulla tematica linguistico-dialettale
di Emilio La Greca Romano | BlogLa tematica linguistica non aveva infervorato soltanto gli animi degli intellettuali del XVI secolo; la questione continuò ad accendere la passione anche nel secolo XIX. In clima illuministico si rinnovò l’interesse. Seguirono poi i linguisti del 1800. Il purismo classicistico spuntò nel cielo del crepuscolo ottocentesco. Successe l’azione manzoniana, per volontà di Broglio, ministro dell’istruzione. Manzoni rese nota la sua relazione che si riconobbe esplicito suggerimento dell’uso metodologico-strumentale finalizzato alla unificazione linguistica nel contesto socio-culturale del Regno novello. Il Manzoni innescò la miccia a un crescente infiammato dibattito linguistico. Graziadio Ascoli mostrò interesse intorno alla questione nell’Ottocento, mentre il Croce si adoperò nell’affrontare il tema nel XX secolo. Speciale il contributo del D’Ascoli. Volle conferire ai dialetti la dignità di lingua e fondò la dialettologia scientifica.
In “Biografia di una parlata: gli studi sul dialetto cilentano”, Cinzia Sapienza, in linea con il nostro pensiero, affermava qualche anno fa che in pochi si propongono di studiare quello che superficialmente viene spesso chiamato “dialetto cilentano”, forse perché non ci sono state finora su quest’idioma delle ricerche incisive e costanti che facessero da terreno e supporto per un approfondimento successivo. Ad ogni modo si può affermare che gli studi di Rohlfs sono stati certamente fondamentali a tal proposito, seppur effettuati negli anni ’30 del Novecento, quando lo studioso, esattamente tra il 1935 e il 1936 si trovò ad Omignano, nei pressi di Vallo della Lucania. Seguono per importanza gli studi di Radtke e di De Blasi, effettuati in tempi lievemente più recenti. Ma quella che occorre per forza citare in un articolo sul dialetto cilentano. Il primo lavoro sul dialetto locale è senza dubbio il tributo di Federico Piantieri, una lettera indirizzata a Ernesto Palumbo “Officiale della Biblioteca Nazionale di Napoli”, considerata da subito il primo effettivo studio su questa parlata, o meglio sull’insieme dei dialetti dell’area in questione. La lettera, datata 20 Novembre 1869, è destinata ad un’amante della cultura popolare e specifica prima di tutto cosa sia il Cilento, delimitandolo geograficamente, e chiarisce che il popolo indigeno si sia originato dai Latini e non dagli Elleni, come erroneamente spesso si era evidentemente ritenuto; anche se, tracce di grecità nel territorio che va dalla piana di Paestum al Golfo di Policastro ci sono, e anzi, la maggior parte di esse in territorio italiano le ritroviamo principalmente qui, avendo avuto nel tempo influenza strutturale, organizzativa, economica ed anche linguistica. Vogliamo ricordarlo, a tale proposito, proponendo una sua epistola intorno alla questione del dialetto cilentano.
“Questo scritto, si dice nel Nuovo Istitutore, del sig. Piantieri fu pubblicato nel Propugnatore di Bologna, diretto da quel valentuomo del Zambrini e si compone di una lettera e di una traduzione in dialetto cilentano di un saporito dialogo cavato della Raccolta del Zuccagni-Orlandini. (Il nuovo istitutore, periodico d’istruzione primaria e secondaria, Anno II, Salerno, Tip. Di R. Migliaccio, 1870). Sebbene io non mi accordi punto col valoroso sig. Piantieri intorno a certe dottrine manifestate nella lettera sui linguaggi e sull’ autottonismo italico, pure bonissime e sottili considerazioni v’ho ammirate sull’importanza degli studi filologici e ia miglior via che dovrebbero battere, come nuove e belle mi son riuscite molte spiegazioni e commenti eh’ egli fa d’ alquante voci del dialetto suo natio. Il dialogo poi è una pittura schietta e vera del parlar familiare tra nu patrone e nu servitore suo. Poiché è caduto qui un’altra volta il nome del sig. Palumbo, giovane di assai svegliato ingeguo e di buona coltura letteraria, vo’ riparare ad un’omissione che commisi nell’ annunziare i suoi opuscoli. Quello , che tratta della Bibliografia, contiene norme aggiustate sul modo di ordinare i libri e farne i cataloghi e la traduzione dal greco la direi elegante e bellissima, se non mi oflendesser qua e là alcune voci troppo stantie ed un certo fraseggiare non tanto semplice e naturale. Con gli uomini che mostrano di saper scrivere e bene, io gli apposto pure le minuzie, anche a risico di beccarmela una presa di pedante. Ce n’è tanti in mia compagnia e da farcisi di cappello? Ancor io con loro, finche questa benedetta arte dello scrivere, dove tanti si spaccian maestroni, non cominci anche lei a diventar qualcosa seria, come la reputa il valoroso sig. Palumbo”.
“Mio caro Palumbo, a voi, che portate molto amore al culto della letteratura e specialmente della popolare, a voi, che mi deste il presente tema, voglio con tutto cuore indirigere questo mio, qualunque sia, scritterello intorno al dialetto del Cilento. Il Cilento, come dimostra la sua etimologia, è un gruppo di paeselli finitimi alla sponde del fiume Alento in Salerno. Gli abitanti di quelle contrade sono discendenti dai Latini; non già, come la pensano taluni, dagli Elleni. Egli è vero che costoro ne’ tempi di Parmenide, di Zenone e di Pitagora vi si accasarono continuando la coltura morale e civile: ma non si dee loro tutto attribuire, poiché prima di essi i Bruzii, i Sanniti, i Latini corsero e ricorsero le vie cilentane. In somma il Cilento apparteneva alla Magna Grecia: la quale si disse così non perché i Greci lasciando una piccola Grecia ne vennero qui a fare una grande, ma perché il genio del Lazio, domando e vincendo tutto, superbo di se stesso gareggiava con l’Ellade ed, accrescendo le bellezze delle lettere, delle arti e delle scienze, volle oscurare il nome della Grecia col dir la sua patria magna. Anzi ardirei dire che, nascimento agli altri: quindi estimo che il nome di Magna Grecia si fosse creato nel tempo istesso che in Atene fioriva la dottrina, più per gara che per altro. I pareri intorno alle antichità, mio ottimo amico, dovrebbero rettificarsi, acciò non si dia nel falso; ed uno de’ mezzi per arrivare a buona meta è il pensare che la terra è stata sempre e gli uomini sono stati sempre e per ogni luogo. Oh bella! Se una pianta, ch’è creatura come ogni altra, nasceva con la terra e in ogni zona terrestre, perché l’uomo, pianta animale, non deve parimente ammettersi nato con la terra ed abitante per ogni regione? L’autottonismo è un momento razionale che bisogna porre nell’evoluzione etnografica. E poi, ragionando intorno al nostro paese, perché si deve ricorrere all’ Asia per ispiegarne l’origine, mentre gli Osci e gli Etruschi sono abitanti indigeni, coevi ad ogni ramo della razza ariana? In tal guisa vuol essere studiato il Cilento quanto alla sua origine; della quale, avendone distesamente parlato nell’altro mio lavoro inedito: “Scuole etrusca e crotoniate”, qui dico solamente che la debba connettersi agli antichi Lucani, germani de’ Messapi, de’ Bruzii, degli Iapigii, de’ Sanniti e di tutti gli altri antichi abitanti il mezzogiorno d’Italia. Con questo criterio studiata la storia delle nazioni, si avrebbe un’idea più esatta de’ popoli e de’ paesi”.
Piantieri nel suo “scritterello”, sostiene, come si evince, l’etimologia della terra cilentana e fornisce il suo pensiero intorno “autottonismo” (autoctonismo, ovvero l’essere autoctono; la condizione di quelle specie o razze che si sono originate nello stesso luogo dove attualmente abitano). Un elemento l’autoctonismo, per Piantieri, razionale e necessario all’evoluzione etnografica. Bene, dopo avere sostenuto, questa posizione, fa conseguire il suo pensiero intorno al “primitivo linguaggio italico”: “Da codesti concetti storici deriva che il linguaggio italico è linguaggio primitivo, il quale, come ogni altro, ha subito modificazioni”. Le origini di una lingua asserisce il Piantieri rivestono eguali caratteristiche che, solo col passare del tempo, subiscono una elaborazione diversa. Per meglio spiegare questo processo lo studioso ricorre alle dinamiche che distinguono nella sua funzione il corpo umano: “E poi le lingue de’ popoli hanno le radici omogenee, non altrimenti che gli elementi delle varie secrezioni del corpo umano, che nel sangue sono indistinti ma pigliano poi speciali qualità passando per gli organi secretori ove si elaborano caratteristicamente. Per la qual ragione bisogna riflettere che la filologia popolare è l’unica da coltivarsi con quel logico criterio che mentre conserva la natia freschezza e la giovanile soavità del popolo non trascura d’esser d’accordo col buon senso. Quante parole, francamente parlando, non sono ignote per fino ai filologi, sol perché la costoro aristocrazia non ha voluto fondersi con esso? E si sarebbero ottenuti due vantaggi: l’educazion del popolo e la dovizia della lingua”. Confida il Piantieri nel valore della lingua del popolo. In essa individua la possibilità di una vera ricchezza e un valido strumento di sicura formazione. “Ogni dialetto è crusca greggia ed invagliata, che sennatamente è da divenir poscia crusca fina, ove si brami una lingua ricca e progressiva. Ecco, mio egregio amico, alcune riflessioni cominciate ad agitarsi nelle menti di molti pensatori italiani”. Il tempo di Federico Piantieri è quello fortemente legato alle vicissitudini della maturazione del pensiero sociale e politico unitario. Si colloca quindi opporuna la sua riflessione intorno alla unitarietà della espressioni linguistica. “Chi sa che andandosi di questo passo e su questa via non si ottenga l’unità della lingua? Sarebbe un gran fatto, utile alle arti ed alla storia; la quale darebbe a’ tempi avvenire schiarimenti che non si trovano ne’ passati”. E’ la lingua dialettale, indica lo studioso, la chiave di volta della conoscenza della dimensione sociale culturale particolare. Si rappresenta mezzo utile per una più completa e veritiera indagine conoscitiva della realtà minuta. Il dialetto deve diventare oggetto di serio studio e da questo deve conseguire un utile dizionario, strumento necessario e indispensabile alla raccolta, alla conservazione e all’uso uniformato. Ecco, infatti, come prosegue: “E la cagione n’è in parte la mancanza dello studio dei dialetti, con cui si ha qualche nozione della vita morale e civile d’un paese. La varietà de’ dialetti dee trovar sua unità solamente in un vocabolario formolato dopo lo studio di essi. Se tutti gli amatori della lingua italiana si dessero pensiero di frequentare un po’ la scuola del popolo, avrebbe il bel vantaggio di apprendere molte parole e molte frasi le quali potrebbero arricchire il patrimonio della lingua nazionale. Nei linguaggi succedono infinite variazioni sillabiche; e, che sia vero, e' basta osservar l'italiano. Ad esempio, fazzoletto: quel fazzo sta invece di faccio; in altri termini faccioletto, quasi pannolino per la faccia. Oggi ancora dicesi faccioletto in molti paesi della Sicilia dal volgo e dai letterati; in molti altri paesi dell'Italia meridionale fazzoletto.
Similmente, per malo udito e per difettosa pronunzia mutansi le lettere: per esempio, in iddo (quello) de' Cilentani si convertono l'll in dd; chero de' medesimi è derivato da quae res, onde tutto chero (tutto ciò), e poi si disse chero e chera per quello e quella. In conseguenza deve tenersi ben mente alle alterazioni della pronunzia, acciò i letterati non piglino granchi e sognino di trovar tutto nelle lingue orientali, poiché l'occidente è sempre esistito, fin da che il mondo è mondo, popolato d'uomini e di cose. Nelle seguenti illustrazioni filologiche non faccio altro che riferir pochissime voci del nostro popolo cilentano. Esse son parte d'un altro mio lavoro inedito intitolato: “Voci italiane da criticarsi e da illustrarsi”, e però non mi distendo molto rifacendo il fatto. Agresta (da agro, acre) nel nostro paese si dice per uva acerba. I vocabolarii hanno agresto: ma pare che sia più bello il vocabolo agresta che agresto sostantivo, anche per non confonderlo con l'addiettivo agresto. Appisolare. Questo vocabolo, pronunziato in Reggio di Modena, in Massa di Carrara, in Firenze, in Milano, in Venezia e particolarmente nel contado di Pisa, è stato argomento d'un lungo articolo a Prospero Viani, profondo filologo. Presso tutti questi paesi e' suona dormicchiare; nel Cilento significa arrampicarsi e si dice propriamente di certi animali che specificamente salgono un'altura: onde i modi di dire appisolarsi come un sorcio o come una lucerta, che valgono salir presto e leggiero come i detti animali. Quindi la parola appisolarsi potrebbe notarsi in vocabolario con questo duplice senso di dormicchiare e di arrampicarsi. V'ha purepisolo pisolo ossia leggiero leggiero; onde nel volgo pigliar un oggetto pisolo pisolo significa pigliarlo colla massima rapidità e leggerezza. L'etimologia poi di queste voci non mi par che venga da Pisa, perché i Pisani sian dormiglioni, né da appislêrs o appislars, ma da una parola latina, che mentre favorisce il senso del dialetto cilentano spiega anco quello del pisano, vale a dire da pisulum, pisello. Imperocché questa pianta essendo leggerissima ed attorcigliandosi co' suoi filamenti alle altezze vicine con la massima agevolezza, n'è venuto l'appisolarsi, quasi per troppa leggerezza salir rapidamente. Del pari appisolarsi per fare un leggiero e piccolo sonno accenna alla leggerezza e picciolezza dei filamenti del pisello, pisum o pisulum. Avvitare. Così dice il nostro popolo quando applica una vite (quell'istrumento meccanico che anche si dice chiocciola). E il vocabolario non nota questa parola, mentre poi segna avvitire, piantar viti! Ciminera, camino, cappa del focolare. Questo vocabolo è logico e adattato a tale significazione, poiché esprime quel segno visibile che fa il fumo annerendo la cima degli embrici. Quindi potrebbe dirsi in pretta foggia italiana ciminera o cimanera. Golìo (da gola), brama che stimasi riseder nella gola e poi qualunque forte desiderio: onde aver golìo, desiderare. Il popolo sa meglio d'ogni letterato far de' vocaboli. Se v'è golosità, golosìa, perché non registrare anche golìo? Ingarrare per indovinare, fare o dir bene una cosa. Il vocabolario ha sgarro, sgarrone per errore, sgarrare, sgarrire per errare e poi non ammette l'ingarrare di molti dialetti meridionali! Mantesino, grembiale. Lo si può far venire da ante e sino, quasi antesino, e voltarlo in italiano per avanseno, anteseno; ovvero da manto e sino, quasi manto che covre ed orna il seno, ed allora si direbbe mantoseno. Pagliaro, pagliara. I vocabolarii hanno pagliaio, grande massa di paglia in forma di cono; il Gherardini ha pagliereccio, capanna, abitazione costruita con paglia. Il nostro popolo forse dice meglio, sebbene le su citate voci pagliaro e pagliara possano indicare anche quel luogo ove si serba la paglia. E allora, a tor via questa confusione, si potrebbe adattare la voce pagliaio per luogo dove si conserva la paglia e pagliara per capanna di paglia. Peculare, pecolare, quando si va a coglier frutta, quasi rubarle all'albero che le ha prodotte; da peculatum dei Romani (furto di danaro pubblico). Spettorone, percossa in petto. Bella parola perché significativa e intelligibile. Stutare, spegnere. Ariosto adopera figuratamente questo vocabolo per uccidere, come viene usato anco dal nostro volgo; ed i vocabolarii non lo battezzano! Susare, levarsi, rizzarsi. Bella voce italianissima, quasi duplicata di su. Tata (padre) l'è una voce popolare che ha il suo riscontro in una parola slava che significa padre ed in un'altra ebraica che val generatore. E i nostri popolani non l'hanno certamente pigliata né dagli Slavi né dagli Ebrei, perché è voce primitiva de' bimbi, i quali o cominciano a snodar la lingua col monosillabo pa, onde papà, oma, onde mamma, o ta, onde tata. E' la natura della gorga umana che simile in tutti gli uomini forma parole simili in tutt'i popoli del mondo. Tozzolare, bussare alla porta. Pare una parola meglio di bussare, perché esprime il suono del to to del battente. Vasata (sostantivo), moltitudine di baci. Simpatica parola, la quale, ripulita in baciata, meriterebbe veramente un bacio e un posticino nel vocabolario. Zippo, segno di misura nello staio: donde uscir di zippo o fuori zippo, cioè andar oltre misura”. Rivolgendosi poi al suo editore, lo studioso esorta gli intellettuali, amatori della lingua, a fare uno studio serio dei vari vernacoli della penisola e tanto per accrescere le conoscenze della nostra Patria. “Vorrei , signor Ernesto, parlarvi più a lungo di queste voci popolari vive nel mio paese; ma, bisognandomi tempo, che per ora mi manca, fo fine raccomandando a tutti gli amatori dell’idioma italiano di mettere in pubblica mostra i tesori dei tanti vernacoli, i quali alla lor volta danno materia per illustrare ed ampliare il dizionario patrio. Lo studio della lingua si agevola con lo studio de’ dialetti; lo studio della lingua è necessario a chi ama la scienza, l’arte e la patria. Oh! L’uomo e le nazioni per poco non sono la stessa cosa. Ma per darvi un saggio del mio dialetto, traduco in cilentano marittimo, per poco differente da quello montanaro, un dialogo cavato dalla Raccolta di dialetti italiani con illustrazioni etnologiche di Attilio Zuccagni-Orlandini, Firenze, 1864. Io con un tal saggio non intendo far altro che confortare gli altri a far lo stesso sopra i proprii dialetti. Amore e non scienza mi fa scrivere. Tanti sinceri saluti dal vostro amicissimo Federico Piantieri”.

Vogliamo proporre poi un singolare scritto del Piantieri:
“Parlata tra nu patrone e servitore suo”:
Patrone. Neh, Battì, ài fatto tutto chero che t'aggio comannato? Servitore. Signò, vi pozzo azzertà r'esse stato esatto chiù ch'aggio potuto. Stammatina a le ssei e nu quarto m'era già abbiato; a le ssette e mezza avia fatto mezza via, e a l'otto e tre quarti trasia into a la cettà; ma po' à chiovuto tanto!
Patr. A lo soleto si stato a ffà lo polotrone into a na cantina p'aspettà che scampasse! E pecché non t'ài pigliato l'ombrello?
Serv. Pe non portà chiro mpiccio; e po' iersera quanno mi ietti a corcà non chioveva chiù o, se chioveva, chioveva picca picca: stammatina quanno mi so susato era ario chiaro, e sulo a ssuta ri sole s'è annuvolato. Chiù a nnotte è ssuto nu viento forte, ma 'nvece re caccià le nnuvole à fatto vené na grannenata ch'à durata mezz'ora, e po' acqua a ccielo apierto.
Patr. Accossì me vuo' fa capì ri non avé fatto quasi niente ri tutto chero che t'avia comannato; non è lo vero?
Serv. Vui che diciti! crero che sariti contento quanno sapiti lo giro ch'aggio fatto pe la cettà in doie ora.
Patr. Sentimo le guapperie toie.
Serv. Quanno chioveva trasietti into la potega ri lo cusotore, e aggio visto co st'uocchi miei proprii accomorato lo soprabito vuosto co lo cuoddo e mborra nova; la giacchetta nova e i cauzuni co le staffe erano furnuti, e l'abito ri sotto lo stia taglianno.
Patr. Tanto meglio. Ma tenivi puro picca lontano lo cappeddaro e lo scarparo, e a cchisti non ài addomannato niente?
Serv. Gnorsì: lo cappeddaro annettava lo cappieddo vuosto viecchio, e avia sulo ra mette la trena a lo nuovo. Lo scarparo po' avia furnuti li stivali, le scarpe grosse pe caccia e le scarpedde pe ballo.
Patr. Ma a casa ri patremo quanno ci si ghiuto, ca chesto era lo necessario?
Patr. Fratemo o la mogliera soa ammeno stia a casa?
Serv. Gnernò, pecché aviano fatta na cavarcata e s'aviano portato lo guaglione e le picciotte.
Patr. Ma li servituri erano tutti fori casa?
Serv. Lo cuoco era iuto 'n campagna co lo patre vuosto, a cammerera e dui guarzuni erano co a cognata vostra, e lo carrozziere, avenno avuto lo comanno r'attaccà li cavaddi pe li mmove, se n'era iuto fori a cettà.
Patr. 'Nsomma non c'era nisciuno 'n casa?
Serv. Non ci aggio trovato che schitto lo muzzo ri stadda, e a iddo aggio consegnato tutte le lettere, pe le portà a cchi iano.
Patr. Manco male. E a provista pe crai?
Serv. L'aggio fatta: pe menestra aggio pigliato pasta e aggio accattato puro lo formaggio e lo butirro. P'accresce lo bollito ri vitieddo aggio pigliato no piezzo ri crastato. Lo fritto lo fazzo ri cervieddo, ri fecato e ri carcioffola. Pe ragù aggio accattato puorco, e n'anatra che si farà co lo cavolo. E non avenno trovato né mali-vizzi né starne né arcere, remerie-raggio co no adderinio a lo furno.
Patr. E pesce non n'ài accattato?
Serv. Anzi n'aggio comprato assai, pecché ia a nniente. Aggio accattato scrummo, treglie, rasce, nasiddi e ragoste.
Patr. Accossì va buono. Ma u parrucchiere non l'ài visto?
Serv. Che diciti! com'a potega soa è vicina a cchera ri lo speziale addove aggio fatto provista ri zuccaro, spiezio, arofali, cannedda e cioccolata, cossì aggio parlato puro a iddo.
Patr. E che nove t'à date?
Serv. M'à ditto ca l'Opera 'mmusica à fatto chiasso, ma lo ballo fui fischiato; ca chiro giovine signore amico vuosto perdette l'auta sera a lo iuoco tutte le scommesse e ca mo spettava ri partì co a delegenza. M'à ditto puro ca donna Lucietta à lecenziato lo 'nnammorato e à ghiurato ri no lo volé cchiù.
Patr. Gelusie... chesto mo me face rerere; ma pensamo mo a nnui.
Patr. Come vao ri pressa e aggio da iere fori casa, statti a ssente prima che te rico, e po' mangi e ripuosi quanto te piace.
Serv. Comannate puro.
Padr. Pe la tavola c'avimo ra fà, para tutto into la sala bona. Piglia a tovaglia e li meglio salvietti; tra li piatti piglia chiri ri porcellana, e non fa mancà né zuppiere né piattini. Accomora a credenza co frutta, uva, noci, amennole, rolci, confetture e bottiglie.
Serv. E quale posate metteraggio a ttavola?
Patr. Piglia li cucchiari r'argiento, le ffurcine e li cortieddi co lo maneco r'avorio, e tien' a mmente che le bottiglie, i bicchieri e i bicchierini ànno ra esse chiri ri cristallo arrotato. Agghiusta po' attuorno a la tavola le meglio segge.
Serv. Sariti servito come riciti vui.
Patr. Arricordati ca mosera vene vavama. Tu sai quant'è seccante chera vecchia! Prepara la cammera bona, fa enghie lo saccone e scote le materazza. Mitti a lo lietto le lenzola e facce ri cuscina chiù fine, e commoglialo pe li tavani. Inghi u mosciatrieddo r'acqua e 'ncoppa lo vacile appienni na tovaglia ordinaria e n'auta fina. Famme tutto a rregola, e non te mancarà lo regalo.
Serv. Veramente m'avite comannato troppo cose, ma fazzo tutto.
Del Cilento e del suo dialetto - Lettera di Federico Piantieri ad Ernesto Palumbo officiale della Biblioteca Nazionale di Napoli (Bologna, Tipi Fava e Garagnani, 1870 - Estratto dal Periodico: Studi Filologici, Storici e Bibliografici IL PROPUGNATORE, vol. II).
Torna utile un intervento di Giorgio Pasquale Brusaioli quando afferma a chiare lettere la positività del dialetto in quanto vera lingua madre. “E’ una ricchezza culturale che non deve andare perduta; è la ricchezza della diversità. E, se c’è ancora qualche raro esempio di giovane che sa parlare il dialetto, tenetelo da conto, va protetto come la foca monaca. In tutto il mondo ogni giorno muore qualche specie vegetale, qualche specie animale e muore anche qualche lingua o dialetto. Fra non molto saremo tutti uguali e clonati, mangeremo solo cibi transgenici, pochi e tutti somiglianti, belli e insipidi e parleremo un unica lingua telematica, senza vita”.

© RIPRODUZIONE RISERVATA







