Federico Piantieri, insigne studioso del Cilento, traduttore di Alessandro (Sandor) Petofi
di Emilio La Greca Romano | BlogPetofi scelse la lotta. Partecipò alla lotta per l’indipendenza nazionale del suo popolo. La lotta del Petofi era estrema e determinata; era lotta a oltranza. La sua lotta poteva richiedere il sacrificio di se stesso senza condizioni. Era lotta generosa, totale. La giovane nazione ungherese e il carattere del Petofi ieri e oggi si identificano. Petofi è stato un patriota e un poeta civile. Con i suoi scritti è diventato il grido dell’indipendenza dell’Ungheria. Venne alla luce il 1823 e morì in guerra nel 1849, concretizzando il suo sogno.
I temi d’ispirazione del poeta ungherese sono patriottici e civili, scrive intorno alla rivoluzione e all’indipendenza; ricorrono poi negli descrizioni paesaggistiche, intorno alla realtà popolare, alla contestualità agreste, alla convivialità, all’amicizia, all’amore. Il Petofi viene, fra l’altro, considerato il poeta dell’esotismo etnografico per la capacità che ha di ritrarre figure e contesti del microcosmo dell’Alfold, la grande pianura ungherese che si estende fra il Danubio e i Carpazi e divenne la terra promessa dei rivoltosi, simbolo di conquista della libertà.
Il Petofi ha considerazione di essere il "Tirteo della rivoluzione ungherese" del 1948-49, poeta dell'amore e della libertà. Venne alla luce il 1 gennaio 1823 a Kisk?rös nella grande pianura ungherese. I suoi genitori erano slavi di orgine, così come il suo cognome, Petrovics , che successivamente cambiò in quello magiaro di Pet?fi (" figlio di Pietro"). Era un semplice negoziante il padre e si adoperava per sbarcare il lunario nell’ Alföld, il bassopiano ungherese. Di questa pianura il Petofi rievoca la bellezza nella sua poesia.
Che sei per me, o aspra terra romantica
dei diruti Carpazi irti d'abeti?
Forse ti ammiro, ma non ti amo: s'arretra
la mia mente dinanzi alle tue cime e alle tue valli.
Giù nell'immenso mare dell'Alföld
giú sono a casa, é quello il mio mondo:
su quelle infinite distese é la mia anima
un'aquila che irrompe liberata.
Il mio pensiero levasi allora
su dalla terra verso le nubi:
sorridendo mi guarda tutto il piano
che spazia tra il Danubio ed il Tibisco.
Sotto il cielo invaso dai miraggi rintoccano
i tanti campani degli armenti satolli:
l'abbeveratoio attende al meriggio
presso la lunga antenna del pozzo
Il galoppo di mandrie di cavalli
tonfa nel vento, scalpitano gli zoccoli
tra il gridare dei butteri e l'aspro
schiocco delle sferze.
Nel mite grembo dei venti ondeggia
il grano spigato, e d'un vivo
colore smeraldo inghirlanda
tutta quanta la bella regione....
.. Sei bello, Alföld! Per me sei bello!
Qui sono nato, mossa fu qui la mia culla:
qui sia distesa su di me la coltre
e qui s'alzi la terra del mio tumulo.
“Fra le opere di tutti i poeti magiari, scrive Giovanni Cifalinò, quelle di Alessandro Petófi sono divenute patrimonio comune di tutta l’umanità civile. Il suo nome ha varcato la cerchia delle frontiere nazionali ungheresi e le sue poesie sono state tradotte in molteplici lingue. L’eco illimitata del canto petófiano ha toccato le fibre di tutti i cuori ed ha ineffabilmente rapito ed esaltato gli spiriti, poiché egli non ad un popolo ha parlato, ma all’umanità. Petófi è il poeta della sua patria magiara, ma nello stesso tempo è il poeta della libertà dei popoli. In quegli anni di passione che di poco precedettero la metà dello scorso Ottocento, i popoli oppressi che scesero in campo per la propria indipendenza ebbero in Petófi il loro Tirteo. I suoi inni di guerra interpretavano t'odio della coscienza europea del '48 contro i tiranni. Ma Alessandro Petófi non diede solo alla libertà universale il suo canto ardentissimo, le offrì anche in mirabile olocausto la propria vita. Nella pienezza della sua gioventù e del suo genio, egli disparve nella battaglia di Segesvar, il 31 luglio 1849, si dileguò come una stella cadente, per rimanere un mito nella bocca del popolo. Pochi giorni dopo a Vilàgos si concludeva la guerra di indipendenza magiara col crollo della patria e la caduta della libertà. Terrore ed assolutismo invasero allora l’Ungheria. La resistenza passiva, eroicamente silenziosa della nazione fu davvero ammirevole, ma non tutti sapevano vivere nel servaggio : la gioventù soprattutto. Onde avvenne che negli anni i quali seguirono al '49 molti giovani abbandonavano man mano la terra degli avi e s’incamminavano verso l’Italia in volontario esilio. (…)». Nel 1868 a Napoli venne pubblicata da Federico Piantieri la prima raccolta in traduzione italiana di 117 poesie esclusivamente petófiane. Quello del Piantieri fu un lavoro di seconda mano, raccattato qua e là traduzioni straniere, e quantunque l’autore volle dare ad intendere d’avere estesa conoscenza della storia civile e letteraria ungherese, si lasciò sfuggire dalla penna che quei canti «sono tutte le poesie del Petófi, unica opera della sua giovanissima intelligenza». (…)Cantarono Petófi, il Carducci e l’Aleardi il quale nel poemetto / sette soldati ne rievoca la morte misteriosa : «E tu, Sandor, perivi, dei carmi favorito e della spada, mentre l’arco degli anni e di fortuna poetando salivi». Anche Gabriele D ’Annunzio conobbe l’arte poetica del Petófi, quando negli anni della Capponcina, la grande scrittrice Cecilia de Tormay gliene traduceva le liriche più deliziose. Allorché, pochi anni fa, la Delegazione magiara venuta in Italia per partecipare alla commemorazione del colonnello Monti, si recò al Vittoriale per fare atto di omaggio al Poeta, il quale, con la sua opera di Soldato, aveva ricordato ai Magiari il loro grande Alessandro Petófi, D ’Annunzio rivolgeva ai cari ospiti un messaggio ove diceva fra l’altro : «Altri ungheresi vennero al Vittoriale ; e non ebbero da me consolazioni vane ma rimproveri aspri per non avere obbedito alla parola di Sandor Petófi : — Su, in piedi o magiari! — Voi non potete aver requie, finché non abbiate rivendicata tutta quanta la vostra terra. Soltanto allora, forse, ritroverete le ossa di Sandor scomparso nella battaglia ; e le porrete fra le vostre reliquie più insigni. Tuttavia, o fratelli, scomparire nella battaglia è il più alto destino. Così sia di me».19 Il 28 giugno 1908 una rappresentanza della gioventù universitaria italiana si recò in Ungheria ed offriva in dono alla gioventù studiosa di 87 Budapest una coppa di bronzo che recava incisa la seguente iscrizione®0 dettata da Mario Rapisardi : Quest'omaggio al nome glorioso di Sdndor Petofi recavano gli studenti d'Italia ai loro fratelli ungheresi con l'augurio della indipendenza di tutti i popoli con la fede nella giustizia e nella pace del genere umano. Per questo desiderio di indipendenza e di giustizia, italiani e ungheresi si trovano oggi affratellati nella comune lotta che deve creare quella libera Europa sognata da Petofi ; perciò i canti antichi di questo Tirteo ci sembrano una pagina della storia odierna. Nel clima duro ed epico che viviamo Petofi è il poeta più attuale, l'uomo dei vent’anni, simbolo vivo di quella giovinezza piena d’impero che sui campi di battaglia si riveste della luce purissima degli Eroi. All’amicizia italo-ungherese oggi rinsaldata col sangue splende, quale odorosa ghirlanda di fiori, la poesia di Alessandro Petofi che tanta e sì egregia fortuna ha avuto in Italia”.
Prezioso risultò il contributo del Piantieri traduttore come degli esuli magiari per la conoscenza e la diffusione della poesia del poeta ungherese in Italia. Il Piantieri, come asserisce Carmelo Musumarra nel 1989, in “Letteratura, lingua e società in Sicilia”, in quanto protagonista del poemetto nel suo tempo, è storicamente sodale al Costanzo, come Vincenzo Giordano Zocchi, Gino Ugo Targhetti, Domenico Milelli e Vito Cardelli. Oltre alla peculiare propensione al sodalizio culturale-letterario di Costanzo si distingue per l’abilità di erudito traduttore.
Federico Piantieri è preso da Petofi, gli fa indossare un vestito italiano senza cambiargli l’identità ungherese. Il poeta caro al Piantieri era di umili condizioni, ebbe una giovinezza dinamica, mostrò interesse per il teatro, fu infatti un commediante girovago. Si formò culturalmente e all’età di 26 anni tradusse poeti classici dall'inglese, dal francese, dall'italiano; a soli 23 anni, invece, era il primo poeta lirico ungherese.
Fu intenso e convinto animatore del risorgimento in Ungheria. Morì in combattimento. Cantò l’amore senza mai distaccarsi dalla questione sociale e umanitaria, attingendo alle valide motivazioni dell’indirizzo romantico europeo. E’ nuova la sua poesia nel linguaggio, intrisa di gusto per la lirica popolare ungara. Essa si pone in netto contrasto con l’accademismo formale della poesia tradizionale.
“L' Ungheria, scriveva il Piantieri, si vede in Petòfi, come Petòfi rivela d’essere Ungaro, abbenchè sia tanta la soavità del sentire e la finezza del colorire i suoi concetti che davvero sembra esser vissuto alla luce dell’italo sole: tant’è la medesimezza del cuore umano! Ed io mi son fatto a volgarizzar le poesie del Petòfi, unica opera della sua giovanissima intelligenza , perchè mi piacciono i poeti, e perch'egli è bello.”
Con grande slancio Federico Piantieri giunge al poeta ungherese, con animo di passione, partecipa all’unisono gli ideali e la voglia del riscatto che è nella poesia stessa dell’Autore. E’ fortemente preso dalla personalità e dal pensiero del poeta ungaro: “Ne’ suoi canti divampa il foco di un’anima giovine grande generosa guerriera; ne’ suoi versi fluisce l’italica armonia per traverso un ungaro petto. Io l’amo questo poeta, unica figura dell'arte ungherese; l’amo e alla men trista lo traduco, perchè gli altri l'amino con me: sì, l’amo quest’artista divino; son lieto d’esser compagno a’suoi palpiti nella speranza e nell’amore, non già nell’ira, ond’ei troppo giovine fu vittima, lasciando gli agi e la pace di casa sua. Gli uomini guardano con gli occhi, gli occhi vedono con Io spirito, lo spirito è un prisma che divide la luce e gliene fa vedere un sol colore per volta!
Fra le opere del Petofi ricordiamo: “Fronde di cipresso sulla tomba di EtelKe”, (liriche in n di 34 su un evanescente amore appena sbocciato), “Il prode Giovanni”, una fiaba popolare che unisce al tono incantato della féerie il realismo dei personaggi “Il martello del paese”, poemetto eroicomico su un fabbro di villaggio; “Le nuvole”, unica composizione pessimista nella produzione del Petofi, “L'Apostolo”, nella cui figura Pet?fi concentra tutte le disgrazie e tutte le colpe di un ingiusto ordinamento sociale. Seguono poi poesie familiari: “A mio fratello Stefano”, “Il buon vecchio oste”, “Il vecchio portabandiera”; tra gli scritti alla moglie: “Come chiamarti?”, “Il triste vento autunnale discorre con gli alberi”, “Alla fine di settembre”; tra le grandi poesie sul paesaggio: “Nella patria”, “Nella mia terra natale”, “La pianura”, “La pianura d'inverno”, “Il Tibisco”, “La piccola Cumania”. E infine la poesia-profezia con la quale predisse con esattezza la propria tragica fine: “Un pensiero mi tormenta!”. Coinvolto negli avvenimenti della rivoluzione ungherese del 1848, morì, seppur disarmato, sul campo di battaglia, ucciso dai cosacchi.
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Le opere dell’autori con i titoli originali:
• Versek, 1844
• A helység kalapácsa, 1844 (epopea comica)
• Cipruslombok Etelke sírjára, 1845
• János vitéz, 1845 (poema narrativo)
• Versek II, 1845
• Úti jegyzetek, 1845
• A hóhér kötele, 1846 (romanzo)
• Versei, 1846
• Tigris és hiéna, 1847 (novella)
• Összes költeményei, 1847
• Bolond Istók, 1847 (poema narrativo)
• Nemzeti dal ('Canto nazionale'), 1848
• Az apostol, 1848
Fra i meriti del Petofi bisogna riconoscere la sua capacità di traduttore, tradusse in ungherese il Coriolano di Shakespeare. L’opera fu pubblicata nel 1847. Povertà di miseria e di studi segnarono l’età giovanile del poeta ungherese. Diversi furono i suoi tentativi di divantare attore. Prese poi, nel 1844, la strada di Budapest e presentò le sue liriche al più grande letterato ungherese del tempo, a Vörösmarty. Vörösmarty. Questi si rivelò sensibile alla sua causa, avendone riconosciuto i meriti gli fece pubblicare i primi scritti. Petofi quindi cambiò il suo destino.
I versi di Petofi sono la narrazione che un rivoluzionario fa della patria, della libertà, del bisogno di elevazione popolare. Il 15 marzo 1848 fu il poeta e il soldato della Rivoluzione. Combattè contro gli Asburgo e gli austriaci. Oggi i giovani ungheresi inneggiano alla nazione con le strofe del Petofi. Il poeta morì alla verde età di 26 anni in battaglia a Segesvár, in Transilvania combattendo i russi. Non è morto Petof. Resta nei cuori. Così ebbe a scivere di lui Giosuè Carducci "Spari come un bel Dio della Grecia". Nessuno lo vide cadere e il suo corpo non fu mai ritrovato.
Il Pascoli dedicherà in “Pagine sparse” una ballata in memoria del poeta civile ungherese. (G. Pascoli, Sandor Petöfi. Ballata «Pagine sparse», Bologna, s. II, 15 ottobre 1877, n. 6)
Sandor Petofi (di Giovanni Pascoli)
Voi fiume da le verdi acque, voi noti
- pioppi dell’Aradfremete pur la:
qui stanno i tassi tra il nevischio immoti,
e il magiaro tra i tassi immoti va.
Si dispergea sopra i comigni lento
Il fumo, e una preghiera or or sonò:
- Tra i tassi immoti urlano i lupi al vento;
egli non prega, egli il magiaro, no.
Ed il fuoco del Polo arde, e l’immensa
steppa scintilla come un ocean:
- striscia una slitta sulla neve, ei pensa
il magiaro, e co’ l’ombra occupa il pian,
pensa e sussurra una canzon selvaggia,
cui per ben trenta lunghi anni agitò:
- sotto il lume polare arde la piaggia –
egli non prega, egli non prega, no.
Ci aiuta un componimento “Mi tormenta un pensiero” dello stesso Sandor Petofi per comprenderne identità e carattere: “Mi tormenta un pensiero:/morire tra i guanciali, nel mio letto./Lentamente appassire come il fiore,/roso dal dente d'un nascosto verme:/lentamente vanir come candela/che si consuma in una stanza vuota!/Non mi dare, Signore, questa morte:/io non muoia così./Ch 'io sia un albero che il fulmine schianta,/che il turbine travolge;/sia rupe che precipita dal monte/giù nella valle col fragor del tuono/che scuote cielo e terra. ../Quando i popoli oppressi insorgeranno/stanchi del giogo/con volti accesi e con bandiere rosse/e sui rossi vessilli sarà scritto/"Libertà universale! ",/quando sarà questo il grido/che sorgerà da oriente ad occidente,/e avvamperà la guerra alla tirannide:/là io cada, sul campo di battaglia,./là sgorghi dal cuore il mio giovane sangue/il mio ultimo grido gioioso/si perda nel fragore della mischia/tra gli echi delle trombe e il rombo dei cannoni/ e sul mio cadavere la foga/dei cavalli frementi/pel conquistato trionfo/trascorra e mi lasci/là calpestato./Le mie ossa disperse sian raccolte/quando verrà il gran giorno/dei funerali, allor che tra un corteo/di bandiere abbrunate ad una lenta/musica solenne, una comune tomba/accoglierà gli eroi/morti per te, o santa libertà!/
Il Piantieri, ecco come presenta la sua poesia, prima di mostrare la traduzione dei componimenti del poeta: “Dovunque batte un cuore , si ascolta un inno di sentimento; ovunque sospira un’anima, si trova che sentire e che piangere: sotto qualunque zona di cielo si ha sempre che vedere e che ammirare. Codeste parole, dette così alla dommatica, son realità quando lo spirito le legge nelle pagine dei fatti: e l’ è un fatto realmente che alcuni poeti stranieri s’ ispirano talmente agli accordi del loro cuore, che sembrano italiani viventi e palpitanti sotto l’astro medesimo che fu ministro di vita e di luce a Dante, a Tasso, ad Alfieri, a Foscolo, a Leopardi, a Parini ed a Giusti. Tanto è comune il cemento del cuore umano!.... Or bene tra quanti cantarono col cuore italiano, dev’essere a ragione nominato Alessandro (Sandor) Petofi, il Poeta della Rivoluzione ungherese, il Tirteo dell’ Ungheria, il Koerner o il Giusti, il Burns o il Bèranger ungherese. Nè tali titoli gli sono stati comprati da chicchessia; imperciocché fu egli tanto popolare che giustamente è chia- mato il Poeta della democrazia ungherese, mentre Michele Vorosmarty è il Poeta aristocratico. Il Petofi è uno di quei poeti eroici, che mettendo l’animo e il cuore in azione, sente una forza superiore che lo investe; e canta senza udire altro che il Genio. Con tanta vita nell’intelletto non poteva il magnanimo ed illustre Vate ungherese andar tropp’oltre per l’arco della vita: e sì, egli nato il dì primo del 1823 a Kun-Szent-Miklos nella sua Puszta, eh’ è una steppa romantica, vera patria dei Magiari, da un padre oste e macellaio; dopo la vita di scolaro indocile, di giovine indomito e tumultuoso, dopo corsa la landa accattando bevendo cautando e brindando in mezzo alle simpatiche Czarde, argomento di ebbrezza e d’ispirazione, dopo essere stato giornalista, soldato e povero sempre, morì alla battaglia di Segesvàr nel foglio 1849, cantando il canto dell’ indipendenza ungherese. A 26 anni Alessandro Petofi era il più grande poeta dell’ Ungheria; il suo popolo lo conosceva e lo amava tanto che subito allor dopo la sua morte ed anche tuttora, ognuno grida sotto la sua capanna là nella Puszta: « Vedete, Petofi non è morto! Non riconoscete voi la sua voce?... Povero popolo! Lasciatelo delirare, è segno che ne ha ben donde, perchè quel poeta aveva il cuore pel bene e l’anima per l’entusiasmo del bello: era veramente il poeta del popolo. Malgrado sì splendido merito, il suo nome non è noto a tutti, ond’ è che la Direzione dell' Ateneo Popolare ha sentito il dovere di fare un’ edizione di tutte le poesie del Petofi volgarizzate in idioma italiano, affinchè si vegga di quanto sia capace un intelletto magiaro. Il volgarizzamento sarà fedele; il traduttore non farà come un rivendugliolo, a cui capitato un bel lavoro di qualche antico pennello, voglia darvi su una ritoecatina, credendo far meglio: meschino! quel lavoro sarebbe già guasto. Non diversamente si farà del Petofi, si studierà vestirlo all’ italiana senza che si faccia smettere di essere Sandor Petofi ungherese. Si ha dunque molta fidanza nei figli della poesia, negli Italiani, perché diano un sguardo a questo libro che uscirà in altra veste onde far novella comparsa; e si largisca al traduttore almeno un sentimento di gratitudine, avendo pensato a diffonderlo nella sua patria: questo solo sarà forse il merito del traduttore. Tutta quanta l’Italia deve conoscere un tanto scrittore, percui s’imitino le altre nazioni che lo conobbero, benché tardi, levandolo a cielo. L’ Alemagna e l’Inghilterra dopo dieci anni seppero il nome e le opere di Alessandro Petofi, ed oggi lo tengono nel numero dei più grandi poeti dell’ Europa contemporanea. La Francia lo ignorò sino al 1860, epoca in cui i due giovani studenti, Thàles Bernard e Desbordes-Valmore, lo rivelarono ai lettori dell’ Ateneo e della Rivista francese sebbene egli fosse stato citato la prima volta in una pubblicazione illustrata datante del 1850. Santo Renato Taillandier ha fatto molto per propagarne il nome: i Dizionarii Enciclopedici, contenenti ancora biografie ungheresi , Maurizio Iokai nella sua Vita di un poeta ungherese, le traduzioni alemanne di Francesco Szarvady e Maurizio Hartman, come anche di Kertbeny, hanno dato molti sprazzi di luce sulla vita e sulla fama del Petofi. Quegli che poi ha agito moltissimo in Francia, onde svelarlo intieramente ai Francesi, è Carlo Luigi Chassin : il quale mercè le gentilezze del Michelet e della contessa Alessandra Teleki, ha raccolto quanto mai si è potuto e saputo trovare, del Vate ungherese. All’attuazione del generoso e nobile pensiero dello Chassin concorsero parimenti, ognuno per la sua parte, Jambor, giovine poeta ungherese, i generali Czetz e Klapka, Daniele Irànyi e l’insigne pubblicistaI. E. Horn. Ecco quanti uomini dotti si son curati del Petofi, perciò è un torto degl’ Italiani non averlo fra le mani, abbenchè il nostro Àleardi ne faccia nei suoi Sette soldati quella menzione tanto preziosa che basta rileggerla per far tacere chi più voglia parlare del merito petofiano. L’opera comincia con un discorso critico del traduttore sulla vita e sulle opere dell’autore; e poi segue dividendosi in due parti: l° La vita errante (1823 e 1847); 2° La rivoluzione (1847 e 1849).

(*) Per quanto io mi sappia, il mio amico Domenico Milelli da Siena due anni fa volgarizzava tre poesie del Petofi e le dedicava ad Aleardo Aleardi. Nè voglio qui tacermi, almeno per debito storico, che anche J. Helfy, com’ egli dice in una sua, ne avesse tradotta qualcuna.
Il Piantieri dedica la sua seguente e la traduzione dei componimenti di Petof ai suoi valenti amici filologi Isidoro Caloiro e Giovanni Canale che “a valor d’intelletto aggiungendo bontà di cuore m’amano come fratello”. Il Piantieri dedica loro questo discorso intorno alla vita e alle opere di chi cantando visse e morì cantando libertà e amore.
E per la patria sua giovine muore.
Muore pugnando; e il rombo del cannone
La voce estingue e non la sua canzone;
Chè del martire vate la parola
Oltre tomba di labbro in labbro vola.
Conficcarsi in un terreno, peggio che una pianta, dimorare in un paese, in una città senza moto d’intelletto e di cuore , badare unicamente alla vita vegetativa e strettamente animale senza ci- barsi dell’ alimento del pensiero, l’è cosa che ab- brutisce l’uomo e lo fa rinnegare a sè stesso, inconscio di tutti i pregi onde lo forniva Natura. Ove però egli dia cura al culto dello spirito, senza cessar la buona economia del corpo; ov'ei rifletta che l’uomo destituito di virtù e di erudizione faccia onta ed ostacolo alla libera e necessaria forza la quale gliene informa 1’ organi- mo , sarà mai sempre studioso a mettersi in movimento e svegliare tutti i proprii sentimenti , perchè indaghi sè medesimo e l’universo, indi si limetta in relazione col mondo sociale per apprendere vie più il concetto della vita. Per la qualcosa quanto più l’uomo conosce l’uomo, una nazioneconosce l’altre nazioni, il letterato conosce i letterati patri i e stranieri, tanto più la società progredisce nelle cognizioni artistiche e scientifiche. Ecco il bisogno di abbondante moneta per viaggiare, e di moltissimo tempo per istudiare; solamente da codeste due potenze, la moneta e lo studio, si può ottenere in vita quella magnificenza di onori e di voluttà senza fine. Per conoscere sè stesso bisogna riflettere, e ripensando considerar ciò che lo circonda. Per conoscere una nazione bisogoa vederla, trattarla; e quando non si possa, è mestieri vederla dipinta in un quadro per saperne almeno l’abbozzo, e leggerne l’ istoria , eh’ è lo specchio ove si riflette la sembianza di un popolo, è il dagherrotipo ove restano impresse le sue gesta. Bene; allor quando la storia tramanda ai posteri le azioni umane, le racconta e le suggella più o men maestosamente, ispirandosi più o meno alle verità dei fatti; ma non li dipinge questi fatti con un colorito poetico, non fa vedere una nazione come la rappresenta un valoroso poeta. Sì; volendosi guardare un popolo in carne ed ossa, volendosi vederlo palpitante ed agitato fra la lotta delle parti, fra la dubbiezza e il contrasto dei diversi affetti, la servitù della ragione al cuore, bisogna leggere il suo poeta. Leggete Mosè, e conoscerete l’Ebreo: leggete Vyasa e Valmiki, e conoscerete l’Indiano: leggete Firdusi, e conoscerete il Persiano: leggete Omero ed Esiodo, e conoscerete il Greco: leggete Alighieri, e saprete l’ Italiano: leggete Petòfi, ed imparerete il popolo ungherese. E del Petòfi appunto vuoisi qui parlare, essendo un ingegno individuale che originalmente ritraendo dal cuore e dalla natura tutte le immagini, ha saputo col pennello della fantasia pittrice colorirle tutte quante e mostrarle all’occhio critico di chi sappia vedere. Codesto singolarissimo genio, sollevatosi dalle steppe native, ha battuto voli sublimi senza scordarsi mai di sè e degli uomini. È vissuto in mezzo agli uomini nè ha mai dimenticato quelli che sieno; in breve costui ha inteso fortemente battersi il cuore ed ha cantato come possa cantare un vate d'Italia. Quanta dolce armonia! che proprietà di concetti! che delicata bellezza di sentimenti! che novità d'imagini! tutto è bello, ti fa proprio veder la pusta sterminata ov’egli ebbe cuna, ti fa vedere i suoi campi i suoi monti le sue fontane il suo cielo diurno con la luce del sole, e il suo cielo noiturno con la luna e le stelle. Egli sente e quel che sente lo fa sentire anche a te, lettor mio, se hai anima e cuore, come lui: ama e tu ami con lui; geme e tu gemi con lui; sospira e tu sospiri insieme con lui; lui ha fame e tu ti senti straziare perchè non Io puoi sfamare quel grande sventurato. Chi legge Alessandro Petòli, sa come sia l'indole degli Ungheresi; conosce le speranze, gli aneliti, le febbri, le convulsioni e gli affetti gagliardi e potenti che soglionsi apprendere all’ anima ungherese; sa che quella terra è cuna di prodi per senno e per cuore; sa che l’Ungheria è creatura degli Unni, gente bellicosa e indomita circa il sentimento del patriottismo. Un poeta, come il Petòfi, può manifestar la natura del cuore ungherese e la vita di tutta la patria sua, perciocché nella franchezza e libertà de’ suoi versi ci favella come sente dentro; e la parola di lui è come raggio di sole che penetra e dissipa le nubi più fitte. L' Ungheria si vede in Petòfi, come Petòfi rivela d’essere Ungaro, abbenchè sia tanta la soavità del sentire e la finezza del colorire i suoi concetti che davvero sembra esser vissuto alla luce dell’italo sole: tant’ è la medesimezza del cuore umano! Ed io mi son fatto a volgarizzar le poesie del Petòfi, unica opera della sua giovanissima intelligenza, perchè mi piacciono i poeti, e perch'egli è bello. Ne’ suoi canti divampa il foco di un’anima giovine grande generosa guerriera; ne’ suoi versi fluisce l’ italica armonia per traverso un ungaro petto. Io l’amo questo poeta, unica figura dell'arte ungherese; l’amo e alla men trista lo traduco, perchè gli altri l'amino con me: sì, l’amo quest’artista divino; son lieto d’ esser compagno a’suoi palpiti nella speranza e nell’amore, non già nell’ira, ond’ei troppo giovine fu vittima, lasciando gli agi e la pace di casa sua. Gli uomini guardano con gli occhi, gli occhi vedono con Io spirito, lo spirito è un prisma che divide la luce e gliene fa vedere un sol colore per volta ! . * . Pare che i lettori del Petòfi sieno più riconoscenti al traduttore se costui faccia loro conoscere la sua vita, eh’ è pur la vita dell’ Ungherese; anzi, nel movimento della sua immaginativa si apprende molto dell’Ungheria. Cosicché, premesse alquante nozioni sull’Ungheria letterata per farla più nota a chi non la sappia, si terrà parola di Alessandro Petofi, accompagnandolo dalla sua cuna fino alla sua tomba, troppo anzi tempo dischiusa! Allora mi godrà l’anima, poiché avendo presentato Petòfi ed Ungheria in unica tela, mi lusingo che altri vi scorgerà almeno un abbozzo non disutile a chi ne sia ignaro, per cui solamente scrivo.
All’ Impero d’ Austria appartiene l’ Ungheria , cuna di fortissimi e valorosi ingegni. L’Ungheria, a cui di qua e di là il Danubio e il Theiss o Tibisco irrigano la fertile terra, è un regno diviso in quattro circoli che formano propriamente le quattro divisioni giudiziarie; in due parti civili ossia bannati di Schiavonia e di Croazia; ed in cinque distretti speciali godenti una speclale costituzione. Fra i distretti speciali dell’Ungheria si trova la Cumania, ch’ebbe la bella ventura di un tìglio così immortale, qual è Alessandro Petòfi. L’Ungheria, sentinella alle porte d’Europa e d’Asia, è una derivazione degli Unni, i quali come i Pelasgi ed i Vandali che ton significare emigrali e viandanti, calarono dalle vette dell’ Asia sulle sponde della Theiss. Questi padri Unni si dividevano in due grandi tipi, il caspio, detto degli Unni bianchi; l'uralio, detto degli Unni neri. Tutta l’energica vitalità, che, dopo quindici secoli, malgrado la ruina delle battaglie , informa e ringiovanendo aduna i popoli unnici sulle rive del Tibisco e del Danubio, s’agita sempre fremebonda dentro l’anima del Magiaro, sia vincitrice sia vinta. Gii Unni, guidali da Attila, devastando battagliando, quasi fiumana che allaga impaziente di correre più fra le sue sponde, premettero la terra, ove oggi si ammira la intrepida coraggiosa e magnanima figura del magiarismo: onde il primo impero unnico. Poscia a tramontana del Danubio sorse un secondo impero che avea per capo Kha-Kan Balan, degno emulo di Attila. Debellamo il secondo impero dai Franchi dai Bulgari e dagli Slavi, comparve il terzo impero ungherese, di cui gli Unni nepoti, Hunnugari o Magiari alla fine del secolo nono gettarono le basi, ancora oggidì esistenti. Questo triplice impero ungherese ha la sua grandezza storica, invidiabile da molte nazioni, di cui ciascuna alla sua volta se non l’abbia avuta, l’avrà per fermo la sua grandezza storica, essendo i popoli simili ad ogni cosa, capace di nascere crescere e perire. Gli Unni sono la gente più bellicosa, temuta dai Romani, la cui forza mirabilmente rivaleggiarono, senza dir la trasformazione etnologica per l’incrociamento delle stirpi. Attila, che fu chiamato il flagello di Dio, è una personificazione dell’ unnismo, ricordevolissima tanto che fa pensare a chi non sia autottono nomade e pancosmico: gli uomini sembrano buoni o mali agli allri, quando costoro ne abbiano o no vantaggio! Da Attila nascono quei prodi, maestri e duci di una gente che raminga per le contrade orientali e restandosi proprio nel cor d’ Europa, è autrice di moltissime gesta e madre di progenie illustre forte e sagace. Nelle vallate del Don e del Volga, ne’pendii degli Urali, nelle steppe lungo il Mar Caspio e il Nero, ancor vivono quelle razze gagliarde che al IV secolo vincitrici con Balamir, al V con Attila, al VI cogli Avari, al IX secolo vittrici con gli Ungheresi, investirono e tennero il centro d'Europa, minacciando sopratutto la Grecia. Codeste popolazioni unniche non si smarrirono e si dispersero di qua di là di su di giù, ma compatte e serrate rimasero nel Basso Danubio: onde i popoli finnounni, le tradizioni ungheresi, i popoli magiari e le cruente battaglie dei latini e teutonici paesi con le unniche popolazioni. Almo Stefano e Attila: ecco tre grandi, da cui l’Ungheria trae origine potente e famosa; ma Attila è sempre l’anima delle unniche imprese. Con tutte queste scorrerie gli Unni, Khoounn hounn, non popolarono terre deserte, poiché contendendo vinsero ed accasaronsi coi vinti. Ond’è che Tacito asserisce le nazioni finniche al settentrione europeo, prima dei IV secolo venute da Kelawala e dall’Edda, e lottanti fiere ed assidue contro le popolazioni scandinave. Gli Unni e i Goti erano due popoli ostili, le cui lotte sanguinose ed accanite principiarono sulle ripe del Don e del Dnieper nel mondo romano, e incontraronsi ferocissime sovra le prode della Marna e della Loira: onde lo sminuzzamento e la fiacchezza dell’impero cesareo. La storia c’ impara che i Moger, Magiari , Ungheresi vennero proprio dalle sponde del Donetz a quelle del Danubio. Sbaragliati dai Petsceneghi, l’imperatore greco, Leone il Savio, aprì loro i piani della Bulgaria, il re della Germania, Arnulfo, il passaggio dei Carpazi, e il loro duce, Arpad, figlio d’Almo Àlmutz o Almos, abbattendo la dominazione degli Slavi e dei Moravi, conquise l’antica Unnia. I Magiari pellegrinando pei terreui finitimi, trovarono nella Transilvania una tribù, che si diceva discendente dei primi Unni, chiamata degli Szekelyek o Siculi. Le popolazioni pannonia, rumena, valaca avara, scappate al massacro degli Slavi nei burroni dei Carpazi, piantarono tenda lunghesso il Danubio e i laghi di Balaton, di Neusiedler e di Palitsh. II popolo ungarico è pieno di ricordi terribili ed amorosi, perchè eroico e singolare per la doppia passione dell’odio e dell’ amore, tenacemente attecchiti nel suo spirito. Un popolo di siffatta tempra non è per fermo un popolo freddo vile e ignorante: anzi, lungi di smentire il proprio carattere audace e battagliero, lungi di frenare il corso degli eventi, è sveglio di cuore, sveltissimo d’intelligenza. Riguardando dunque la sua natura, che si assorella meravigliosamente all’arditezza e perspicacia delle razze ariane, non ci maraviglia che vediamo l’Ungheria esser cuna di uomini valorosi e prodi nella repubblica delle lettere e delle scienze. La raanifestazione degli affetti non è mentita, anzi è vivacee, sarei per dire, l’espressione del suo concetto è scultoria: originale è la letteratura degli Unni moderni che hanno abitudini, lingua e tendenze, comuni a tutti i popoli slavi, massime agli Slovachi, ai Polacchi ed ai Boemi. Gli Ungari e i Boemi un giorno furono caldi ed entusiasti nelle Crociate; un altro giorno le terre di Praga e di Pesth risuonarono della voce di Giovanni Huss ! Ecco i momenti delle nazioni che vonno esser libere senza la tenebra dell'anima e sema quella legge mentita, scritta a punta di spada e stampata a polve da cannone. Molti secoli av. G. C. gli Unni, padri degli Ungari, costituivano nell’Asia un impero vastissimo , circoscritto ad oriente dalla Tartaria e a mezzogiorno dal Tibet e dalla Cina. La gente della odierna Ungheria si accomuna con tanta euritmia ai tipi, indiano germanico e latino, che noi leggiamo romanze ballate leggende e poemi antichi e moderni, ripieni di quel senso, vivo unicamente nel petto della razza caucasica. I capi ungheresi chiamavansi figli del cielo , mentre che formavan sempre, a pensarla con uno storico, la disavventura della terra. Altri storici invece, come il Gior- nande, asserisce i popoli unnici nati dalla copula del demonio con le streghe. L’antica Pannonia o Ungheria, è una gente di contradizione, come ogni altra classica gente, nella concezione degli affetti: onde il vario divisamento degli storiografi circa la sua nascenza la sua irrequietezza e le sue corse bellicose e devastatrici. Dopo il V secolo Attila la condusse in Germania in Francia ed in Italia, combattendo, flagellando e soggettando. L'Ungheria è tanto inebriata dello spirito marziale, e gelosa, anzi direi, fanatica dell’atavo nome, che all’XI secolo credeva di possedere la spada di Attila, la quale altra non era, secondo la sua credenza, che l’istessa spada di Marte. Giusta l’opinione di un vecchio cronista alemanno, la su memorata spada di Marte, era abbeverala del sangue cristiano, perch’ era il flagello della collera di Dio. Quella spada giaceva lungo tempo sotterra; dissotterrata un giorno da una giovenca ferita, trovata da un pastore, portata al re degli Unni che ne fece arma di protezione, fu brandita dalla formidabile mano di Attila, e poscia tenuta, come su notavo, dalla fede nazionale qual’arma ereditata da Marte, Dio della guerra. È questa una leggenda, rivelatrice di un’anima assorbita dal sentimento della gloria antica, è una credenza ch’io, invece di riderne come d’una favola e d una superstizione, la estimo un’esageratezza di un senso marziale e di un’idea entusiastica per l’ ambizione della gloria e delle conquiste. Sotto il governo di Giovanni Uniade, Luigi l.° e Stefano, primo re cristiano, le cose ungariche andarono sempre più fiorendo, massime ai tempi dei Francesi, i quali non risparmiarono niente per lussureggiare negli ornati delle dottrine e delle arti. All’orgogliosa credenza della spada di Marte si accoppia un aneddoto, il quale dimostra che cosa sia il Siculo, quando si attaccano le sue tradizioni e le sue credenze. Un viaggiatore francese visitava qualche anno fa, la Transiivania; ed ivi non avendo trovato alberghi, scarsi in quel paese, trovò una casa d'ospitalità, generosa virtù dei Transilvani. Dalle pareti della casipola ospitale pendevano due ritratti grossolani; l’uno rappresentava un comandante che al verde uniforme, al gran cordone della Legion d’onore, sopratutto al suo piccolo cappello, entusiasmò il Francese in modo che gli parve riconoscerlo, e gridò vivamente: Napoleoni L’altro ritratto rappresentava un individuo d’aspetto feroce, coperto di manto reale, con un diadema sul capo, e in mano una bandiera, su cui distinguevasi uno sparviere. Il Francese, ignaro del nome che dovea mettere a quel ritratto, ammutiva; il Siculo alla sua volta in aria di trionfo esclama: Aitila Magyarock Kiralyal Attila re dei Magiari. Di rimandoli Francese irritato dall’anacronismo, che, secondo lui confondendo gli Ungheresi con gli Unni, poneva Attila al IX secolo; Atlila n’était point roi des Magyars, il était roi des Hans. Avversato il pregiudizio filiale e l’orgoglio delle patrie tradizioni, lo Szekel abbassò gli occhi e più non disse. Ma da quel punto più non si strinse la mano della confidenza, abbenchè nulla fosse mancato al dovere ospitale! Codesto aneddoto prova abbastanza il carattere schivo del Magiaro, geloso del passato ed ambizioso di ogni opera illustre e singolare. Sì, nel cuore degli Unni europei dalle steppe del Mar Caspio al Caucaso , il nome di Attila è santo, com’ eroe della nazione; mentre sulla bocca degli Unni asiatici, Tchinghiz-Khan e Timour son oggi due nomi che muovon l’anima del mondo orientale. Però dal fondo dell’Asia alle sponde del Danubio non si è spezzato mai quel vincolo di segreta simpatia che avvicina i popoli e li apparenta. La natura degli Ungheresi si vede nelle loro azioni, figlie di uno spirito animoso, altero ed abbominatore dei vili. Si narra che ai tempi del Duca Toxun, avo di S. Stefano, avendo un’armata magiara invaso il settentrione della Francia, il Duca di Sassonia al passaggio del Reno la sorprese. Di quell’armata furono sette soltanto risparmiati, e, tagliati loro il naso e gli orecchi, furono congedati con queste parole : andate a mostrare ai vostri Magiari ciò che loro spetta, se mai riapparono in casa nostra. Questi senza saper altro di meglio, ciechi e immattiti di rabbia, presero la via della patria loro: giunti colà, ebbero le più tristi amare e sconfortanti accoglienze dai loro paesani. Quei sette furono maledetti perchè non seppero morire coi compagni e furono costretti a ramingare con il marchio sulla fronte: Hélu-Magyar Gyàk , i sette Magiari infami. Costoro privati di tutto ed obbligati a pitoccar la vita, tolsero una chitarra e andarono cantando la loro sventura. I tìgli loro fecero del pari: e così nell'XI secolo venne fuora la classe dei menestrelli, soppressa e distrutta poi da Stefano intieramente. Le usanze, le abitudini, i sentimenti del cuore e i deliri della mente ungherese, vivono nelle leggende, di cui il popolo magiaro, com’ogni altro popolo, è pieno. Gli Avari alla prima epoca del dominio unnico possedevano tradizioni direttamente ricevute dai figli e dai compagni di Attila. I Yalachi e i Pannonii conservano ancora tradizioni latine, piene di amorose leggende. Leggiadre giovanette bianco vestite cantando inni di lode e di pace, andavano a incontrare Attila, reduce dalle battaglie. Arpod aveva i suoi cantori quando arrivò sulle sponde del Danubio. Ogni Magiaro del medioevo cantava sopra una chitarra (kobza) i suoi amori i suoi sdegni i suoi dolori e le sue speranze. Ogni magiaro de’primi tempi cantava o i 'ersi suoi o d’altrui; ogni magiaro era poeta. I duci e i re della dinastia arpadiuna, la casa di Anjou, Luigi 1°, Giovanni Uniade, fondatore di una dinastia verso il XV, secolo coltivarono e fiorirono la letteratura ungherese. Mattia Corvin, l.° Uniade, tuttoché sapiente assai ed amantissimo dei poeti greci e romani, non favoreggiava altro che letteratura unnica, prediligeva moltissimo le vecchie poesie magiare e non sedeva a tavola senza i giullari con la loro kobza. Un autore, contemporaneo di Mattia Corvin, certo maestro Giovanni Thwroezi, ci parla di canzoni cantate e composte in onore di Stefano Konth degli Herderwara. Sino al XVI secolo la tradizione popolare fu animata, e lo spirito ungarico non pcrdè affatto quell’arditezza e peregrina natura del suo pensare nativo. Luigi 1°, dice Amedeo Thierry, il più gran re che abbia avuto l’Ungheria, e il più nazionale, malgrado la sua origine straniera, prende egli stesso vera passione per questi canti nazionali, ch’erano come l’anima della sua patria adottiva. Egli introduceva nel secolo XIV fra i Magiari, le istituzioni francesi , faceva rice care le origini della nazione, e si occupava di Attila. Giovanni Uniade e Mattia Corvin mostrarono all’ Europa del XV secolo, il grande amor loro pei canti magiari e pel nome di Attila. Attila e gli Unni divennero oggetto di passione alla corte di Mattia Corvin. La costui moglie beila e savia, Beatrice d’Aragona, onde pagar degnamente le buone ed oneste accoglienze degli Unni, promosse e suscitò con l’aiuto e il consiglio di sapienti italiani, da lei protetti, il rinascimento delle lettere magiare. «Nessun popolo (quanto l’ungherese) ha traversato, scrive il Thierry, vicissitudini più amare; conquiso dai Tartari, spogliato dai Turchi, oppresso venti volte dai partiti interni, e più d’una volta bensi tradito da’ suoi propri re, si è rialzato da tutte le sue ruine forte e confidente in sè stesso». Chi dunque non vede che la poesia è un fiore, il quale facilmente fiorisce sul terreno magiaro? il dolore feconda questo fiore si rado; il dolore affratella gli uomini; e chi lo sente non ride di chi si duole, nè si sazia mai di Alessandro Petofi, che nacque sventurato per fatalità, visse lunga pezza tapino per l'infamia del mondo, e allor che la sorte gli era apparsa amica nel ceruleo di due occhi, nel roseo di due labbra e nel cuore di una fanciulla, volle morire per la sua patria!
Da un oste e macellaio, discendente dall’alta alla bassa Ungheria col nome suo originale di Petrovicz , il primo dì dell’anno 1823 nasceva Alessandro Petòfi a Kun-Szent-Miklos, secondo Irànyi, o, secondo il Dizionario enciclopedico, a Szabad-Szàllàs, nella Kiskunsàg: da un beccaio, lanaiuolo e guantaio nasceva ai 23 aprile 1504 Guglielmo Shakespeare a Stratford, sul fiume Avon nella contea di Warwik. Ambedue apparirono sulla terra in troppo volgare culla; ambedue morirono lasciando un nome singolarissimo! Non è dunque la culla che fa la grandezza e l’immortalità di un nome; le pietre preziose sogliono starsi sotterra!! Alessandro Petòfi, abbenchè nato in un albergo fra i lamenti di animali da macello, malgrado i pochi mezzi paterni, fu mandato fanciullo al ginnasio evangelico D’Aszod, poi a quello di Szent-Lorencz, da cui uscì per entrare nel Liceo di Selmecz, dalle cui mura scappò dopo una disputa con un de’ suoi professori. Petòfi era nato poeta: fin da ch’era scolarello nel liceo di Selmecz, egli scriveva versi; e i suoi condiscepoli lo avevano in bella rinomanza pe’suoi poemetti e per le sue canzoni. Un suo biografo racconta che un giorno andò in mano d’un suo professore, un brano de’ suoi versi il professore, lettolo, giudicò non essere poesia di chi se n’era segnato autore. Il Petòfi ne incollerì tristamente; e domandando a queirincredulo maestro, un soggetto qualunque, si mise fra i suoi camerati a versificarlo in poco momento. Il maestro arrossì: il discepolo vinse, e superbo della sua vittoria non perdonò alla menzognera Umerita del suo professore. Un carattere sì fiero sì pieno di vita non poteva certamente frenarsi fra le quattro parieti di un seminario , sotto la pedestraggine di un maestro. Ond’è che, sentito il bisogno d’uscire aH’aria aperta, s’incamminò dove Io cacciava il destino; e giunse a Pesth, fra le cui vie non sapeva egli stesso che fare. A quel tempo aveva appena quindici anni; nè sapeva altro che far versi e recitar commedie. Questa virtù un giorno lo salvò dalla fame; poiché non avendo quattrini, si presentò ad una compagnia drammatica, e fu adoperato a compier la misera parte di comparsa. II padre, saputala sua fuga dal liceo e la sua dimora in Pesth, partì subito, e rinvenutolo facendo il commediantino, se lo trasse a forza in casa. Durante il viaggio, tentò più volte svignarsela; e suo padre raccomodava per le feste. Arrivarono in famiglia; la madre teneramente se lo abbracciò; e dopo pochi mesi, il figlio senza commuoversi alle carezze materne, impaziente anco di sè stesso, vole'a scuotere dal suo collo il giogo della domestica servitù. II padre per tanta riluttanza, contro lui s’inaspriva; poscia, la paterna austerità dalla madre che idoleggiava il suo Sandrino, mitigata, il figlio parve più docile e quieto; ed eccolo inviato al Liceo di Soprony, perchè fosse un giorno quello che la natura gli aveva dato d’essere. Arrivato qui, non amò il letticciuolo del liceo ma il saccone della caserma, e si fece soldato!
O Alessandro Petòfi, quanto t’illudi! tu fuggi il purgatorio del collegio, ed entri l’inferno della caserma. Si figuri ognuno come doveva un carattere violento impetuoso indomabile conciliarsi con la severa impassibile e inesorabile disciplina militare! Eppure, gettato il dado, non ebbe la vilezza di trarsi in dietro; fu buon soldato, subì il rigore della milizia ed all’eroico sentimento della sua indipendenza preferì la dignità del suo dovere. Intanto non fu risparmiato a nessun servigio, quantunque la sua intelligenza fosse stata molto lungamente superiore a quella de’suoi capi: il più disaggradevole servigio, secondo l’asseveranza del Jokai, era lo spnzzamento della neve in caserma. Nè si scorò; appena aveva un pò di tempo andava al liceo per seguitare i suoi studi: ivi conobbe Alberto Pokh, che dopo fu redattore del Pesti hirlap, e gli si fece devotissimo amico. Finché il suo battaglione si rimase in Soprony, egli consagrava molte ore alla vita liceale; ma, uscito dall’Ungheria, fu spedito in Croazia e poi nella Stiria . Che divenne allora per la povera anima del sensibile Sandrino, la vita fuori della terra natale! la sua gioia si mutò in tristissima ipocondria, e non vedendo più il raggio matuttino del patrio sole, si sentiva strin- gere e cervello e cuore. Obliava l’amarezza del suo esilio e l’immitezza del suo destino, solo in quel punto che ricordava a sè medesimo i più cari e preziosi versi di Orazio e Schiller. In quelle tristissime giornate, il suo spirito poteva solamente racconsolarsi e darsi un momentino di pace, quando sovvengasi di sua madre, che gli si presentava alla mente gemere affettuosa accanto il focolare, sulla lontananza del figlio. Alle noie della vita, che tanto angustiavano il cuore del poeta soldato, riusciva salutare la soave compagnia di Guglielmo Kuppfs, la cui' amicizia egli amò e fece perenne con que’ suoi pochi versi a lui dedicati, che non svaporano mai, perchè dettati dal sentimento. Passarono circa due anni, 1840 e 42, ed ammalatosi Alessandro si trovò allato un medico dello stato maggiore che, tolta cura di lui, lo guari e poi lo fè congedate per fievolezza di temperamento. Se la sua esultanza era pienis- sima, poiché liberavasi dalle catene militari e rivedeva sua madre, suo padre, la sua casa, la sua patria, veniva pure amareggiata dal dispiacere, chè separavasi dal suo Guglielmo. Non aveva che fare: il sapiente soldato strinse la mano a’suoi camerati, e datosi un amplesso di amore col suo amico Kuppis, pigliò la via del suo paese.
Scorsi parecchi anni, da che il Petofì era stato, congedato, un suo sergente va a visitarlo. Il Petòfi avevasi fatto sino a quel tempo molto gran nome di poeta: l’aura popolare lo portava sopra le sue ali, simpatico glorioso e benedetto. Il sergente presentatoglisi con la mano al quasco, gli disse: ricordate di me? Il poeta non se ne ricordava alle prime ; dopo pochi minuti riconobbe il suo buon caporale, che un dì gli faceva buona la mancanza di non aver messa la baionetta in punta al fucile; che lo ammirava vedendolo sempre recarsi un libro nella giberna, un altro nel quasco; che rideva allor che lo vedeva in fazione o lungo il corridoio o nel posto d’armi o altrove, pensoso ruminare i più bei versi dei suoi maestri prediletti. Il caporale era diventato sergente: il Petòfi era quel ch’era, grandissimo e rinomato poeta. Nondimeno costui, umilissimo in tanta sua grandezza, volle tributare tutti gli onori dovuti al suo antico superiore. Il sergente accettò a bere, me non volle sedersi in presenza di lui. E perchè? gli disse il Petòfi. Il sergente gli rispose: Io mi so bene ch’ella non è nè generale né capitano; ma so ch’ella è un granduomo e si deve rispettare! Il poeta non insuperbì; però senza invanirsi, sovente citava questo fatto come uno dei grandissimi trionfi del suo genio popolare. Uscito dalia milizia, egli non s’impigrì nella carriera letteraria, anzi obbedendo sempre al divino afflato della Poesia, sempre leggeva e sempre pensava. Il pensare vale molto più che leggere! Intanto a diciott’anni, per meglio apprendere, alle istanze della famiglia, se ne va a studiare a Papa, ove si ha ciò che in Ungheria si chiama sesta classe, Reitorica e Poesia. Allora Ja vita collegiale gli parve più dolce, in mezzo a due amici, Maurizio Jokai e Samuele Orlai, a lui conformi di mente e di cuore. Con essi fondò nel collegio medesimo e sotto la pre- sidenza di un professore, un comitato, che aveva proprio l’aspelto di un’ Accademia e tutta la forma di una Dietìi, col titolo Società di Primavera. Ivi quel eh’ era giudicato buono ed applaudito, era iscritto in un libro di merito. I borghesi ridevano a risa grasse sulle spaile degli Accademici di Primavera; ma venne un giorno che gli Accademici si burlarono di quei borghesi! k. Il 1842 neh'Athenoeum, giornale di Pestìi, comparve una poesia del Petòfi, qual membro della Società di Primavera. Come poeta era salutato da tutti; tutto il mondo lo guardava e lo additava poeta: ma egli disse che Samuele Orlai era il poeta per eccellenza ; egli amava solo far versi. Però a lui si dovea, se non la gloria poetica, il merito della declamazione: a lui la parte di una tragedia, di un dramma, di una commedia, di un melodramma, innanzi ad un popolo che ha nervi: a diciannove anni ei non si teneva inferiore ad Egressy, il Talma ungherese. Orlai e Jokai lo ammirarono: Orlai, poeta e prosatore, eguaglia sovente il lirico Vòròsmarty e il ro- manziere Josika. Jokai , ritrattista del grande Alessandro PetòQ, era avanti a’ suoi occhi il HafDigitized faello o per Io meno il Rembrandt dell'Ungheria. Or vediamo che intreccio! i tre grandi amici, Jokai, Orlai e Petofi, s’innestano, per dire, l'anima a vicenda; il primo divenne un novellista ed un romanziere facondo e gradito; il se- condo si fece un gran nome in pittura; il terzo fu artista drammatico rappresentativo creativo, fu sempre il più popolare poeta del suo paese* S’ era nell’ animo del Petofi cacciata la smania della declamazione. Egli, imparato assai di latino e di greco, lascia le scuole e fa sapere alla sua famiglia che voleva darsi alla vita dell' artista drammatico. Suo padre Io voleva tutt’altro che teatrista, desiderava ch’ei fosse stato un eccellente avvocato: povero padre, quanto s'illudeva! il genio chiamava suo figlio alle pendici del Parnaso; e se si fosse fatta la volontà paterna, fra i libri dell’ Einnecio e del Cuiacio quel genio forse non si sarebbe che soffocato ed estinto! E il figlio fece la volontà sua; la casa paterna gli fu chiusa; ed ei perlustrò parte dell’Ungheria con unacompagnia artistica, cominciando la sua carriera drammatica a Szèkes-Fe- hezvàr nel 1842. . Ma il Petofi, s’era vivace declamatore, non era per fermo nato alle scene: onde il poco profitto e il poco gradimento del suo personaggio al pubblico uditore Gli mancavano, proprio le qualità fisiche: era piccolo, poco agile e spigliato nei gesti, poco forte di voce, poco ardito di Gsonomia: tutto ciò avveniva sulle scene, non già nelle brigate ed in mezzo alle vie, ov’era tutt’altro che inceppato e tardo. Egli fu poco avventuroso a teatro nel destare il pubblico; perciò gli si dava la parte del buffo nel Re Lear, la parte di domestico che doveva parar la mensa, empiere i bicchieri, portar le lettere e altre parti di sì poco momento. I compagni vedendolo non riuscire, duravano a credere che il Petòfi buffo fosse l’istesso Petòfi poeta: quindi lo guardavano con poco buona cera; i miserabili non sapevano distinguere il favore degli uomini che plaudono e fischiano a matto capriccio, dal favore del genio! Intanto Petòfi, accortosi dell'immerito disdegno della comitiva verso lui, pensò, una sera, facendo la parte di un cavaliere provocante un eroe, invece di sfoderare la sciabola, tirar sul naso del suo rivale un colpo di bastone che si tenea nascosto di dietro. Il pubblico scappò a ridere, l'attore principale mancò di effetto, Petòfi fu felice. Ma il direttore della Compagnia, vedendo eh' ei ridea dove bisognava piangere e piangere dove bisognava ridere, ad istanza di tutti i compagni, lo mandò via. Quest’evento fu a Kecskemet, ove il Petòfi soggiornò al principio del 1843. Qui fece molte poeDigitized sie, pubblicate nell* Alhenoeum. Ma la fame non lo lasciò: anzi dormendo a cielo scoperto, spesse fiate addormentossi digiuno. Senza colezione, senza pranzo, senza cena, passano molti suoi giorni, ed egli non si perde di core; anzi fida che l’avvenire vendichi il suo presente ed il suo passato miserabilissimi. In mezzo a tanta fame ei sempre sognava gloria fortuna ed amore! Ed ei cantava , cantava come l’usignuolo, il quale fida all’eco la sua musica divina senza domandarle che ne faccia, e s’inebbria egli stesso della sua propria melodia. Cantava il povero Sandrino; ma di che viveva? di versi! Di tanto in tanto a Pesth se ne pubblicava qualcuno anonimo, e Iddio sa che prò gliene potea tornare. E poi la poesia non è tanto ben popputa nutrice! Or vallo a dire questo qui al poeta: ei sempre sarà poeta; e chi si sgomenta della povertà, madre e figlia della poesia, non è degno di esser poeta. Alla povertà si accompagna lo sdegno; povertà e sdegno son due argomenti di altissimo poetare. E con questi due compagni il Petofi movendo da Kecskemet, cominciò a scorazzare la pusta. Or che sì I* ha indovinata; in Ungheria , massime nelle steppe dei Magiari, l'ospitalità è generosa a modo antico. Ebbene, a lui che amava la patria ed era simpatico, posta, ilare, franco e gentile, non mancava per certo un desco a cui sedere. Ed in mezzo agli evviva degli ospiti , in mezzo agli sguardi focosi delle graziose fanciulle della steppa, in mezzo al tripudio delle mense coronate di fiori, al tocco dei bicchieri che si empiano e votavano alla salute della brigata, egli, giovine cantore, inebriato delle bellezze della pusta natale, scorda l'impronto e inconscio fischio dei teatri, e giovaneggia salu- tato e coronato poeta dai cordiali figli della landa. y. In mezzo della pusta magiara, ove spesso suc- cedono i miraggi (Delibàb), principalmente sopra le rive della Tisza, vive un bizzarro personaggio, chiamato nel paese lo csikos. Costui porta un cappello a larghe falde, una veste allesserà, un calzone di tela bianca, sì largo che da lungi si direbbe una sottana da donna, infine calza degli stivaletti speronati. Il suo viso è ac- centuato, il suo sguardo è d’un’estrema vivacità, e, com’egli è magiaro , porta dei mostacchi folti aspri arricciati. Lo csiko è un ultimo figlio degli Unni, un figlio della banda arpadiana; è il più ardito cavaliere, è il domator dei cavalli, tanto che a lui sta bene apDigitized placato il proverbio nazionale: l' litigherete è stato creato a cavallo ! Su questo domatore di cavalli, Betyàr della Puszta, il Petòfì rifletteva, e sprigionava dall'anima certe canzoni da sembrare un ispirato della patria. PetòG cantava, e il suo canto non lo saziava! La miseria vie più Io travolse nella fame, ed ei sentissi disperato tanto che cadde malato. Ignorava a chi rivolgersi: Analmente risolse dirigersi a Debreczen, ove si sovvenne di un amico, collegiale di Soprony, Alberto Pakh. Ma, essendo quella città lontanissima, s’arrestò incapace di seguire il viaggio; ed entrò in un albergo , dove la sua giovinezza ebbe la moneta della buona accoglienza. Eccolo nell’albergo della Puszta, non più solo, attore poeta, ma circondato da mandriani e da csichi cantanti intorno le mense. Qual maraviglia, qual’esultanza! Petòf conosce in quei versi l’opera sua: il popolo sapeva coronare il poeta ignorato ed oppresso dalla miseria più spaventosa. Finito il canto, Petòf disse il suo nome , e tutti bevvero alla salute della patria e dell’avvenire. Quella sera era festa alla czarda; era la festa dei bicchieri spumanti e dell' arrosto di carne suina. Finite le sere ospitali in quella czarda, egli andò via: e da Kecskemet Gno a Debreczen non trovò più czarde, ove poteva essere accolto senza paga un povero poeta ed amoroso. Nulladimeno pervenne mezzo morto a Debreczen, e si andò a riposare sulla soglia deli' amico suo, Al- berto Pakh, il quale vedendolo lacero e pallido col viso della morte, se lo trasse in casa, e coricatoselo nel suo letto, gli si pose al capezzale. Alessandro gli disse: mio caro, io sono ritor- nalo a te, affinchè se muoia, qualcuno possa almeno interrarmi! Il Petòfì sanò: ma sapendo che il suo amicissimo Pakh, il quale fu in seguito redattore del Journal du Dimanche, pure aveva ap- pena per sovvenire a’ suoi bisogni, pensò di non mangiarsi la metà del suo pane più lungo tempo; e si portò in casa la Bordas, cassiera del teatro, da lui conosciuta. E le disse: volete voi eh’ io mi guarisca in casa vostra? quando me ne troverò il mezzo, ve ne pagherò la ricompensai La Bordas lo accolse con tutta grazia, e gli tenne da seconda madre. Mercè le sue cure materne, il Petòfi si ristabilì subito, e subito volle darsi da fare, perchè non stesse più sulle spalle altrui. E dimandò del pane al teatro: ma tutti chiusero gli orecchi per lui; gli abitanti di Dehreczen non vollero più ammirare un sedicente rivale di Egressy, ed egli ebbe una disfatta completa nel Mercante di Venezia. Incredulo alla sua incapacità e spiegando il suo insuccesso con la mala grazia dei direttori e con il mal gusto degli uditori, si diede a mendicare fra le città meno incontentabili e difficili, come Szekelyid, Dioszeg, degli applausi che gli vennero negati. Ricadde infermo e ritornò dalla Bordas , presso cui passò la più parte dell’ inverno 1843 al 1844. Alessandro passò la sua convalescenza raccogliendo le migliori sue poesie e terminando i suoi studii letterari. Sapeva di alemanno, e lesse e rilesse Schiller e Goethe; ma sopratutto Schiller, poiché detestava Goethe, il quale, secondo ei diceva, era spirilo freddo, adulatore dei grandi, e che non arrossiva di vivere alla corte dei principi. Non sapeva il francese, e se lo mise ad imparare: allor fu visto sulle mura della sua cameretta il ritratto di Yittor Ugo pendere compagno al ritratto di Vòròsmarty, il più grande poeta epico e lirico dell’Ungheria. Allora il Béranger, con cui aveva intimo rapporto di sentimento e di genio, svegliò nell’anima sua le più belle immagini e le più care simpatie: però se il canzoniere francese bruciò incenso a qualche cesare, il canzoniere ungherese non piegò il suo spirito repubblicano innanzi a nessuna figura umana, fosse stato anche Kossuth. A Debreczen il Petòfi potè passare la sua vita in compagnia del più dolce amico suo, qual era Alberto Pakh: e pure quest’ amicizia fu rotta. E la cagione fu come va a dirsi: il Pakh avendo avuto in dono un nastro tricolore, il Petofi presone, glielo chiese. Alla dimanda successe il riliuto. Ora un bel mattino Sandro andato dall'amico, lo trovò uscito e vedendo il nastro nella sua stanza, se ne cinse il cappello ed uscì per la città. Il Pakh rincontra, se ne dispiace, gli strappa il nastro, e rincasatosi gli scrive una lettera viva e pungente, a cui il Petofi rispose con certi versi, i quali furono così belli che si calmò l'ira dell’ amico, innamorato della bellezza del verso e dimentico di ogn’ingiuriaivi espressa. Sandro li voleva per gettarli al foco, chè cancellando con la fiamma ogni onta voleva conciliarsi con il suo vecchio amico. Costui rispose: ne sono io il padrone, io li serbo; e l’inviò aU’Alhenoeum per farli di pubblica ragione e metterli all’ammirazione di tutti. Che bei modelli di amicizia! Non solo nell’ Alhenoeum, ma benanche nel Narratore ( Regelu) e neU'Elet Kepek ( Scene della vita) furono edite le cose sue. Con tanto prestigio di poesia il Petofi avrebbe fatto moltissimo in qualche terra straniera, perchè grande era il suo nome di poeta e minime il suo nome di attore. Nullameno risolvette andare a Pesth e ritentar la sorte nei giornali e sulle scene: con questo chiodo nel cuore va per tempissimo in casa Pakh, e destatolo, gli dice: hai tu in me una confidenza illimi- tata? SI. E bene, vestili e vieni. Ma ove? e perchè ? diceva l’amico. Il Petofi non rispondendo, lo trascina all’altro estremo della città, dalla Bordas; lo spinge nella sua cameretta, e, dopo aver serrata la porta, gli ridomanda: hai tu in me una confidenza illimitata? Senza dubbio, replica il Pakh. Ebbene, siedili, prendi una penna e scrivi. Detta, dice l’amico. Io, Alberto Pakh, mi obbligo di pagare alla Bordas le cencinquanta lire che le sono dovute, se di qui a quarantotto giorni Petofi non le abbia acquistate; di ciò ne sono io garante. L’infelice professore segna la sua sicura ruina: e il Petofi ridendogli in faccia esclama: cencinquanta lire... o diavolo! le scovrir resti tu!., e stende maestoso la sua mano dritta sopra un pacchetto di carte d’ogni colore e d’ogni dimensione. Ecco, ei dice, miei poemi ! Essi val- gono dell'oro!.. Il Pakh voleva ben crederlo: ma pur ne dubitava. E soggiunse il Petòf: dovess’io pitoccar di porta in porla, al di designato tu avrai la somma!.. Immediatamente dopo fa un fascio delle sue poesie , prende un bastone, e con dieci soldi in saccoccia s’ incammina alla volta di Pesth. Arrivato a Pesth, le sue poesie furono trovate troppo popolari per la sostanza e per la forma, sovente un pò neglette. Che gusto stra- no! ond’è ch’egli cerca il vitto per altra via; e ritorna al teatro, ove fu più infelice che altre volte. Accadde questo curioso incidente che dimostra la confusione di Sandro in certi momenti. Secondo dice Jokai, si doveano maritare due fidanzati nella scena finale di una commedia: egli era sì commosso che disse queste parole precise: È il signor Gregorio la fidanzata? Subito ripigliò volendosi correggere: È la signorina Giulietta il preteso? il pubblico rise e fischiò. Il povero emulo di Egressy fuggì dietro le quinte nascondendosi, giusta la sua espressione, sotto i mazzetti di rose e inviluppandosi di nuvole? Qui dovea finire il suo affetto alla carriera drammatica; ma no, il suo acciecamento gli avrebbe serbato forse altre cadute seguendo la stessa via! Nel 1844 il Petòfi venne occupato per copista presso un personaggio della Dieta di Presburgo; ma non durò questo vilissimo impiego, perché la dieta venne sciolta. Egli intanto si era fatto delle relazioni, e per l’editore Ignazio Nagy, che allora pubblicava la Biblioteca dei romanzi stranieri, tradusse Robin Hood di Iames e Donna de’ quarantanni di Carlo de Bernard. Eia miseria gli è compagna ancora; egli abita su di una soffitta e mangia più sovente pan nero che pan bianco: è solo, abbandonato dagli uomini; eterna sua compagnia è la pipa. Avea dato alla luce molte poesie, sulle quali scoppiettò la frusta della critica. Malgrado il rigore dei critici, quasi tutti davano all’ignoto poeta un genio non comune. I giovani scrittori Pàlfy, Benzy, Lanka e Degre lo trattavano da fratello.
Loro intimo amico era il poeta Federico Kerényi, che dopo il 1849 emigrò in America e divenne folle pel dolore d’ aver visto perire la libertà della patria sua. Moltissimi cittadini organizzano a Pest un circolo, il quale, riunito al circolo nazionale, si trasformò in circolo di opposizione e fu nel 1847 e 48 il circolo dei radicali. A questa società venne il Petòfi ascritto e fu amato grandemente. Avvenne un fatterello pel povero Sandro. Una sera fu condotto da un suo amico in propria casa, ove si teneva la più splendida società di uomini utili ed importanti. Entrato in sala e riflettendo ai suoi abiti inferiori a paragon di quelli degli altri invitati, si cacciò in un angolo rimoto ed oscuro, tutto chiuso nel suo mantello. Le sue poesie correvano di mano in mano e formavano l’argomento della sera. Ognuno credendo l’autore assente parlava liberamente come la pensava. L’avvocato Karady, segretario del circolo nazionale, gridò : che versi delestabili ! Petòf ruggì di collera; ma Karady, avendone letto un altro frammento, disse: ah non è male... questo qui è meglio. E il poeta anelante taceva sempre nel suo cantuccio. Il Karady, dopo aver letto fin allora a voce bassa, non potendo più contenere il senso dell'ammirazione lesse ad alta voce un pezzo di poesia e poi altri ed altri. Gli uditori non si satollarono d’ ammirarlo: applaudirono di vero cuore; e tutti si rivolsero al padrone di casa, dicendo : questo poeta, questo grande poeta ov’è? Come non l'avete voi invi- tato? Ed egli rispose: vedetelo là quel giovine in fondo alla stanza .... Come! quel pallido giovine?.. Sì mal vestito? È quello il rosignuolo che canta così! — Si udia dintorno fra la maraviglia l’amore ed una pia tenerezza. E il Karady si fece avanti il Petòfi, gli prende la mano e senza preamboli gli domanda: ove dimorate voi? Il Petòfi balbutì, vergognoso o adirato della sua miseria e del suo soffitto; poi gli rispose: non ho ancora scelto domicilio. Tanto meglio, soggiunse il Karady; verrete in casa mia; vi ha posto per due... Il poeta lo guardò disdegnoso in faccia, lo estimò degno di lui e gli tenne dietro. L’indomani l’ avvocato esce mattinissimo per gli affari suoi, e a notte avanzata si ritira. Vede il Petòfi intento al lavoro e non gl’indirizza parola per non turbarlo. Si sveglia la notte e lo vede al travaglio ancora. Il mattino vuole portarlo seco a colezione, ed egli risponde: no, sono invitato. Almeno pranzeremo insieme? lo sono invitato. Ceneremo? invitato. Sempre invi- tato? disse il Karady, e gli fe comprendere il dispiacere che un amico dava al suo amico rifiutando un fiorino almeno, a titolo di prestito. Accetto, dice il Petòfi; e sortito il Karady, ei corre a sfamarsi, chè da quarantott’ ore non aveva mangiato niente! di poi rientra in casa, si rimette al lavoro e compie due poesie: le porta ai giornali letterarii, se le fa pagare avanti l’edizione e ritorna subito a sdebitarsi con Karady. Costui lo amò, lo protesse e cercò di trovare un editore delle sue poesie, appoggiato dalle cure di Vòròsmarty, tenero patriarca nominato da Iokai. Il Vòròsmarty elogiando inanimì il suo giovine emulo, a cui promise quanto mai dipendeva da lui per l’edizione delle sue poesie. Pur tutta volta i mercanti librarii ricusarono, come invendibile, il manoscritto delle sue poesie , malgrado tutte le raccomandazioni di Vòròsmarty e di Karady che chiamavano il Petòfi il primo poeta dell' Ungheria. Allora se ne fe proposta al Nemzeti Koer, perchè avesse tolto a suo carico le spese dell’edizione dei primi versi del Petòfi. La maggioranza del circolo, abbenchè la mozione fosse stata presentata e sostenuta, dal Vòròsmarty, rispose che lì non era il vivaio de’ versificatori. Stupida società quando sconosce la bellezza di una poesia, eh’ è l’ iliade del cuore e l’odissea della vita umana! E pure, se un branco di nobili e contadini socializzati negava aiuto al Petòfi, personificazione del genio, sorgeva un ricc'sarto, a nome Gaspare Toth, che si offerse a prendere a suo carico tutte le spese delle poesie petofiane, e subito Firaiseal Kasady 900 lire. Costui le presentò al Petòfi, dicendogli, perchè sapeva la delicatezza del suo animo, essere quel gruzzolo di monete da prelevarsi dai futuri dritti di autore. E cosi a Buda nel 1844, mediante le cure di molti scrittori, venne fuori il primo volume dei Versi di Alessandro Petdfi. Si rimpannucciò alquanto l’infortunato dottissimo Ungherese; poi entrò a far parte del Pesti Divallap (il giornale delle mode di PesthJ,a cui il fondatore Emerigo Vachot lo scelse per secondo redattore.
Lo spirito del Petófi non si era invaghito di nessuna creatura sulla terra, abbenchè il suo cuore fosse stato si delicato : però, un giorno avendo vista una bella giovinetta in compagnia del suo parente , il poeta Alessandro Vachot, ne fu preso immensamente. La si chiamava Etelka, graziosa e simpatica immagine, fonte della più rara e vaga ispirazione petofiàna. Dopo qualche tempo ch’ egli l'amava,' venne la morte a rapirla; la pianse come si piange la cosa più bella e più diletta, quando la si per da. Nondimeno gli avvenne due anni, che Etelka era morta, l'incontro di Jokai: il Petìifi gli con fessò: Come l'uomo è cattivo! Io ritorno dal cimitero, io ho pianto sulla tomba della mia innamorata! Passò da canto a me una giovinetta, io mi son ritornato a guardarla! ‘..allora io tornava dal cimitero! Che mistero è la vita! il poeta della Pusta amava altre donne, senza obliare l’antico e primissimo amore della sua povera morta. Tutti i versi numerosissimi, che Etelka morendo ispirò al Pet6fi, vennero accolti in un volumetto, e pubblicati nel 1845 a Pesth, sotto il titolo: le Foglie di cipresso. Nel medesimo anno vennero messe a stampa le Perle d'amore, ispirate da fervide passioni. Per le Foglie di cipresso il Petófi venne tenuto fra i primi poeti dell'amore, in Ungheria. Dopo la disgrazia della bionda Etelka, l'anima del Pet6fi era diventata pesante a se medesima; inimico del mondo, avversario della terra, censurator del creato e del creatore, egli non la menava buona nemmanco a sè stesso: tanta era l’orma dell'ambascia, cui gli aveva stampato nel core il nero destino della bellissima sua.intanto, edite le sue prime cose, scritte più con la vigoria della giovinezza e del genio, che con l'austerità dell'arte. egli venne salutato col nome di poeta, ma sulle spalle s’ebbe anche a sentire forti critiche scudisciate. Si ripeteva frate altre cose che l'oro del suo genio non era di pura lega: questo rimprovero gli fu grave e terribile; si mise con tutta lena a studiare, affinchè avesse ripianata la laguna, scavatagli dal suo fanatismo comico e militare nel campo dell' istruzione letteraria. Ed eccolo al termine d’apprendere il latino, il francese, l’ alemanno e l' inglese: poi cominciato a impararsi l’italiano e lo spagnuolo, si pose a studiare profondamente i classici e i moderni, massime Tacito e Lucano, Béranger e Vittor Ugo, Shakspeare , Byron e Tommaso Muore, James e Shelley, Goethe, Schiller, Lenau ed Enrico Heine. In tal guisa egli‘ divenne il più severo critico; e le Foglie di cipresso non vennero mal trattate come i primi versi: si avvicinò, anzi sorpassò, all'istesso Vórósmarty, così elegante quell'espressione, cosi sapiente nella frase, così armonioso‘ nel ritmo. Maledetta la sorte, quando il letterato non ha di che vivere, se non del prodotto della sua penna l Tal fu del poeta ungherese: faceva versi per accrescere il suo salario, quando era redattore del Giornale delle mode’; e trovandoli detestabili aliidavali al torchio colla firma dello. pseudonimo. Altra fiata per compiacere al po‘ polo, che apprezzava freneticamente il suo no me, egli improvisava un poema di quattro o cinquecento versi, il Fabbro del luogo, campo‘. sto in manco di un mese, o l' Eroe Giovanni, scritto in dieci giorni: ciascuna delle copie di queste su memorate opere gli fruttavano diciottolire! e bravo la poesia! L'Eroe Giovanni è il più bel poema fra tutti gl'improvisi; un va lente critico francese dentro il suo articolo sopra ’Alessandro Petò'fi, nella Rivista de' Due Mondi, 15 aprile 1860, l' ha detto: un vero capolavoro di grazia, di passione, un sogno eroico e tenero, raccontato con un dolce sorriso... ove splendono schiettamente, come ne' nostri antichi trovatori, e tuttavia con un modernissimo sentimento, i desiderii segreti dell'ispirazione ungherese. L’Eroe Giovanni è ancora uno dei racconti che si ripete sovente alla veglia in casa dei contadini magiari; gli Slavi, invidiosi e spasimanti di possederlo, se lo son fatto tradurre. Nel 1860, un poeta serbo di Ujvidek, lovannovits, ha ver significato in sua lingua lo Janos Vitez. del Petdli. Il poema dell'Eroe Giovanni ebbe più buona fortuna, morto fautore suo che vivente. Il popolo lo gradiva con tutto il cuore e con tutto il vergine sentimento; la critica , bruttissima strega quando si nudre d'invidia, di antipatia e di quella tale opposizione, ridotta a sistema , accusava l'autore di negligenza e di soverchia trivialità. Il Petófi sdegnossi di questo rimprovero , ed all' ingiuria di poeta plebeo rispose che il suo Pegaso era un puledro di puro sangue ungherese, e non gli avea voluto pro/‘onor la bocca di un morso di schiavo. La critica fece molto sull'animo di lui; edi suoi studii avanzarono assai. Un’altra causa di sommo progresso letterario, fu nel suo spirito il conflitto slavo tra il latinismo ed il germanismo; e come i Szechenyì,i Kossuth, i Nagy. i Zay, i Vesselenyi e i Teleki tra i pubblicisti, come i Teleki, gli Horvath,i Palugyai, i Szalay tra gli storici, come gli Josika, gli Oetvoes, i Szathmary, i Palffy, i Kuthy, gli Jokai tra i novellieri, come i Vórósmarty, i Kisfaludy, i Tompa, gli Arany, gli Erdélyi, i Czuczor, i Szàsz, gli Hunfalvi , i Bajza tra i poeti, sve gliarono l'animo del popolo ungherese, cosi il Pe tófi accrebbe il vantaggio sociale, dalla Puszta della Cumania trasportando il genio magiaro da lui conservato, nella superba Pesth, dalla capanna del contadino al salone dell'aristocrata. Alla fine del 1845, Alessandro Petófi si trovò a Pesth, ed agli allori del Petrarca e del 7 Béranger, ei voleva‘ aggiungere sulla sua fronte anche l’alloro del Shakspeare. Quindi ‘compose un gran pezzo in prosa. intitolato: Marca il Verde, (Zóld Marczi); lo portò al teatro nazionale, e non avendone avuta l' accettazione, lo gettò al fuoco. Da questo fatto ei ridiviene folle pel mestiere di attore; ma questa volta si avvide pure nell' importante parte del Disertore (Szoekoet Katona) , del Drammaturgo ungherese, Szigligeti, che la scena era per lui la più acre nemica. Scrive un secondo dramma, intitolato il Tigre e l'odio, ma nemmanco ebbe il piacere della rappresentazione, poichè sebbene il comitato gli fosse stato men severo ed inclemente, voleva dall'autore moncherie e correzioni. Egli, più severo del comitato revisore, si contentò riserbarlo: ne compose degli altri, e sempre istesso fu l'evento. Invidia maledetta o ignoranza dei comitati teatrali! Verso il 48t5 e 46, pubblicò molte novelle nel Pesti Divatlap e hell'Elet-Kepek; ma non le ebbero molto riguardo. Scrisse un romanzo con l’epigrafe, la Corda del Carnefice; e venne an cora bistrattato dalla critica. Mentre che il cri tico livido e ingeneroso rompeva la sua frusta negli pmeri del Petófi, il popolo, più clemente _ 55 _ giùdice e più sensibile e meno odioso estetico, gli coronava la fronte in mezzo a frenetici applausi. Raccontò il suo viaggio nell'Elet-Kepek, alla maniera di Enrico Heine; il pubblico se ne compiacque, gli Zoili fremebondi vantarono ol tremodoillleisebilder, acciò al felicissimo poeta della Puszta avessero scemato, anzi tolto, ogni pregio di scrittore. Terribile destino di chi s’inalza più su che altri; i pigmei sono i primi a saltargli addosso! Intanto , scordate le impressioni del poema del Sogno fatato , deHa .leggenda di Salgò, della Maledizione del l’ amore e del Szilaj Pista, tutta la gloria del le canzoni fe risuonare per tutta l’ Ungheria il nome del Petófi. Per tanta sua rinomanza, pel suo carattere puro schietto indipenden te e disdegnoso, il poeta del popolo qualche volta si mostrava orgoglioso. Si racconta che un di il Petófi stando sopra una vaporiera, un nobile gli faceva un bel viavai dinantiguar dandole ad ora ad ora senza salutarlo affat to. Ei monta in bizza, e gli grida : Signore , voi non potete non conoscermi, e voi dovete sa lutarmi, perché io sono il poeta Petò'fi ! Singo larità di genio! Ei disprezzava le ricchezze, so pra cui metteva il tesoro del suo genio. Che mi. stero! non è sempre l’ orgoglio indizio d’ igno ranza; per altro questo sentimento del Petófi _ 56 _ non era superbia di sè stesso, ma profondo ri spetto al genio che lo agitaya di dentro e l'ob bligava a sentire altamente, rizzatosi vincitore sui blasoni e sulle marre. A proposito del dis prezzo dell'oro, a cui preferiva l'ingegno, si narra da Jokai , che Petófi , assistendo ad un concerto di Listz , gran pianista ungherese, egli vide un’ ammirabile giovinetta dai biondi capelli, dagli occhi azzurri e dalle labbra con tinuo sorridenti. La bella piacevasi guardarlo passionatamente; egli guardava lei molto più passionato. Allora gli disse uno degli amici: ah! Petófi, non guardar cosi quella ragazza. Tu potresti innamorartene seriamente, e te ne ver rebbe faccenda assai trista e vana... Perché, se ti piace? Perchè quella giovine non è nata per isposar noi, noi altri... Ella ha per padre il più ricco banchiere della capitale. E la ricchezza intellettuale di un poeta non vale 1‘ oro di un banchiere? Tal quale tu mi vedi , andrò doma. m‘ a dimandarla in matrimonio. Si ride, ma il Petófi si tenne serio. L'indomani in effetti va a trovare il suo amico. .E che , gli grida , tu hm‘ creduto che Petò'fi non era capace di far tutto ch'ei dice? Ebbene conducimi or ora in casa del padre di lei che amo. L'amico porta ra gioni al poeta, ma tutto gli fu inutile; dovette condurlo all'albergo di M. X. Petófi entra, si fa annunziare, è ricevuto.‘Signore, io sono Petò'fi il poeta, io amo vostra figlia e vi dimando la sua mano. Il banchiere gentilissimamente gli rispo se che conosceva abbastanza il Petófi dalle sue opere, di cui egli era fervente ammiratore; e se voleva essergli genera, doveva pria di tutto pia cere a sua figlia, in conseguenza si fosse fatto presentare da una persona conosciuta e sarebbe stato il bene accetto... Ciò detto, il banchiere sa lata; il poeta se ne va. 1)’ allora il Petófi si scordò dell’ apparizione al concerto di Lista, 0 guaritosi di quell'amore, provò a’suoi amici che osava tutto, ond’ei si vantava. L’anima del poeta ungherese era così fatta: gelava e incalorivasi, taceva e fremeva, moriva ed entusiasmava, sempre oltre misura, a mò che gli andava o no a genio una cosa. Ad una semplice parola diventava un Titano che voleva far guerra anche al cielo, e strappargli le stelle, diadoma suo; ad una semplice parola diventava un Orfeo che scen deva nell'inferno per amor d’Euridice. Ecco l'a nima del poeta! ' É strana la tela della vita di Sandro. Una sera conobbe un’attrice, in teatro; se ne invaghi tanto che se la prese a braccetto, e corse per un sacerdote. Volea sposarla l A mezza via gl'incontrò un ministro, che gli usò la gentilezza di fargli comprendere non potersi di notte ce lebrar matrimonio senz’autorizzazione speciale. Le nozze si differiscono al domani: l’indomani la fidanzata e il fidanzato si erano già tediati: e più non si rividero! Con gli amici ei quere lavasi, contendeva, ma non riusciva ad insulti e a tradimenti. Adiravasi, e dopo poco tempo, ch’erasi fatto leone, ridiventava mansueto come un agnello, gentile come un colombo. Si narra che un di Jokai e Petófi, disputavano: quegli par lava acerbo, questi passionato; e passeggiavano di su in giù. Petófi, accortosi che la pipa gli si era smorzata, pieno, com'era. di collera, corse a gettare nel cappello di Jokai la cenere del suo tabacco. Ah! poffardio, grida il romanziere: sdègnati se vuoi, ma non prendere il mio cappello per sputacchiera. Il poeta sganascia di ri sa; e i due amici che stavano per battersi, baciaronsi teneramente! O Sandor Petófi, pochi seppero leggere nel libro del tuo cuore; eri fantastico e sereno, scaltro e semplice, parevi brusco molesto e intrattabile, eri furioso o terribile, ma perchè tutto questo? Forse l'anima tua era maligna? no, per dio; l'anima tua fremeva di collera innanzi ali’ingiustizia, alla tirannide. all'infamia, al male; voleva tutto, perchè tutto dava; era incontentabile nell'amore e nell'amicizia, perchè ali‘innamorata ed all'ami co ci si donava tutto tutto. Chi mai crede ad un cuore di simil tempra? solamente chi lo possiede! Ma ve ne sono? si. Alla fine del 1846, il Petófi sdegnato cessò di collaborare al Pesti Divatlap e nell'Elet Ke pek. Lo attorniarono molti giovani scrittori, e designò la fondazione di un periodico. Tutto fu preparato; il pensiero non venne meno, la volontà era sempre l'istessa; ma che mancò per non fare nemmanco uscire il primo numero? il solito, messer Danaro.... I nemici risero; ed ei, per non vedere ed udi re più dentro Pesth, corre all'oriente dell'Ungheria, s'interna all'ultima estremità della Transil vania, ed ivi riapre il suo cuore generoso al tripudio dei borghesi entusiasti che lo salutarono poeta e lo coprirono di fiori. Gli Ungheri tran silvani di Kolosvar fecero in suo onore fausti banchetti e serenate gioconde. Durante questo viaggio trionfale, egl'incontrò una donna ed un ‘amico. A Szathmar una bellissima da migella, quantunque guercetta, gli lasciò comprendere d'esser potuta amare se ei voleva. A Nagy Karoly il Petóiì, assistendo ad una conferenza di liberali sulle prossime elezioni per la Dieta del 4847, udì una radical emozione di un nobile giovane, e vide tutti levarsi contra. Il poeta popolare sostiene e sviluppa la me zione respinta, ne presenta altre più demo cratiche, e quegli solo, appoggiato da lui, gli è favorevole. Terminata la conferenza, i due ami ci di parte, si avvicinano l'un l'altro: Noi siamo la minoranza nell’opposizione, dice il poeta, voi avete preso il mio partito, io il vostra, per ca so; or facciamoci più a conoscere, io mi chiamo Alessandro Petò'fi, - Ed io, gridò il nobile giovine, sono il conte Alessandro Teleki, e vi offro una fraterna stretta di mano. -- I due amici si conobbero e s’intesero più intimamente. Petófi consentì a seguire il Teleki nel suo castello di Kollo; e costui divenne il confidente dei nuovi amori del Poeta. La bella di Szathmar s'avea conquistato il cuore di Sandro: gli sguardi appassionati ed ardenti di quella giovinetta gli aveano accesa nell'anima una fiamma sempre più crescente. E Petofi mandava da Kolto all'an‘giole bello versi di passione raramente sentita; l'angiolo bello gli rispondeva da Erdoed per mezzo del vecchio ussero, Sarkoczi, in una prosa eminentemente poetica. Giulia Szendrei era la perla, l’angiolo bello; suo padre era amministrature delle proprietà di un ricco magnate. L’amore tra loro erasi vivamente acceso; il Teleki temendone un incendio corre ad Erdoed, per chiedere in nome del Petófi, la mano di Giulia. Il costei padre fece l'occhio di bragîa, ascoltando che un poeta, ricco di mente e povero di sacca, al solito, pretendeva d’essergli genero. La madre si convinse e pigliò le parti del Conte e di Giulia. L’amministratore divenne ossesso, mandò a malora tutti e tre, dicendo: sposino, e crepino di bisogno; io non do a mia figlia consenso di matrimonio, ma che se lo prenda da sè. Le Szen dreî, madre figlia, montano nella carrozza del Conte Teleki. Si arriva; si manda per un sacerdote, ed agli 8, settembre 1847, si celebra lo sponsalizio di Alessandro Petófi e Giulia Szen drei. In sulla sera la signora Szendrei ritornò in casa sua, e il conte Teleki emesso alla porta. La fu bella davvero! il Pelófi gli disse: andiamo, caro amico, voi avete fatto molto per me, finite la vostra opera; cioè, partite subito mi vostri famigli, eccetto il cuoco, e lasciatemi solo con la mia donna in questo castello. Cosi avvenne per un mese, e poi il castello di Kol to tornò al padrone, partiti che furono pacifica mente gli sposi verso Pesth. Tutti i giornali parlarono enfaticamente delle nozze di Petófi; i giovani sposi parevano amarsi a vicenda sino alla morte. Ma lo sposo poeta non dimentica mai d'essere ancora poeta della patria. Viene la rivoluzione; e il canzoniere del popolo, ebbro più del patriottismo che del coniugio, abbandona la giovine moglie ed il figliuolo. Avea già col suo lavoro fatto una famiglia tranquilla ed agiata; per la salvezza della patria egli si slancia il 4859, nella‘ mischia rivoluzionaria, onde perdere sè e la sua famigliuola! Era giunto a tesoreggiare col suo nome e colle sue rime: schietto amor di patria spinse alla bellica arena l'ungaro Tirteo. Pel popolo degli Arpad è giunto il tempo lungamente atteso: la rivoluzione , come incendio alla messe, si propaga sempre più viva; la melanconica poesia ungherese esprime le più an ti0he e riposte aspirazioni popolari. Si legga l' Appello, (Szózat), di Michele Vórósmarty, lirico ed epico, perchè si conosca il genio dell'Ungheria; a me piace collocarlo in queste pagine tal quale lo dedicai tempo fa all'esimio collega Isidoro Caloiro da Cotrone.
A TE ISIDORO MIO
CHE’ AMI E COLTIVI TANTO IL FIORE DELL‘ ARTE
IN QUALUNQUE E’ SI NASCA
Ungaro, ognor la stessa fedeltà;
L’è cuna del tuo vivere,
Tomba che un di rinchiuder ti dovrà.
Per te al mondo una patria ,
Fuor di questo paese, ah! non v'ha più;
- E Dio ti arrida o attèrriti ,
Qui vivere... o morir qui devi tu.
Spesso fu visto correre
Il sangue de’ tuoi padri in questo suol
Qui fissi han dieci secoli
Gli storici tuoi nomi, in loro vol.
Per cre‘airti una patria
È là ch‘ Arpad ha combattuto, è là;
Là Uniadde i vincoli
Spezza alle braccia, e dona libertà.
O libertà , sanguinei
Li tuoi stendardi sventolaron qui;
Qui in lunghe lotte caddero
I nostri, e il meglio fior qui ne morì.
In questa patria un popolo
Vive pieno di tante avversità,
Affievolito un’empia
Sorte l'ha, si, ma non schiacciato l'ha.
A te, Universo, patria
Dei popoli, ha di volgersi l’ardir
Il cor di questo popolo...
Patì mill'anni, or vuol vita o morir.
No! tanto sangue inutile
Grondato non sarà da tanti cor;
Non si saran tant'anime
Sagrificate invano al patrio amor.
Esser non può che il genio
La forza e in un la santa volontà
Inutilmente s'usino.
Del fato a sopportar la gravità.
Ritornerà! Propizio,
E miglior tempo certo ha da venir;
Stan'mille e mille supplici
Ferventi labbra, ond’ei debba redir.
Ma se nella terribile
Sua maestà la morte ha da venir ,
In un paese, oceano
Di sangue, avransi i funerali a dir.
L‘avel di un morto popolo
I popoli verranno a visitar;
E si vedran le lagrime
In mille occhi, funèbri scintillar.
Mantieni alla tua patria,
Ungaro, oguor la stessa fedeltà;
L'è cuna del tuo vivere,
Tomba che un di rinchiuder ti dovrà.
Questo canto venne ripetuto per tutta l'Ungheria, prima del 1848, nel 1859 alle feste di Kazinczy, al seppellimento del Foryniak, giovine martire del 15 Marzo 1860, e alle patriottiche dimostrazioni fatte in onore della memoria di Stefano Szechenyi. L'animo dei Magiari è rapito sino all'estro da far dire, che la nazione degli Unyad ha lo spirito grecolatino. È sommo l’entusiasmo degli Ungheresi per l'amore alla patria: basta leggere questo altro canto per vedere quanto sia il loro patriottismo. La seguente poesia fatta nel 1850, fu attribuita al poeta eroe, ma i critici vogliono che non sia sua; invece si vuole che sia si stampata ad Hambourg, firmata: Roja , figliuola patriota. Veramente se la non sia del Petófi, dev’essere una poesia diqualcheduno , ammiratore, imitatore ed alunno del suo genio; o almeno, come tanti e tanti in altre nazioni, l'ha composta un uomo che aveva un cuore, (fonte di bella ed eterna poesia), simile a quello di Sandro. La riflettano i lettori, e apprendendo qual sia la tempra del popolo ungherese, pur vedranno alquanto la continuità storica dell' Ungheria.
GIOVINE DI BELLE SPERANZE
PER LE LETTERE ITALIANE
È già qualche tempo che voi non ballate!
Son luoghi ridenti le terre magiare,
Or si che dovete voi tutte danzare!
Ad Arad ed a Pest ah! l'occhio drizzate‘!
Colà si satolla d’eterne ballate l
Dei passi alla corda austriaca si fanno
Al suono dei ferri, cui batte il tiranno.
Or ‘già più non sono Battiani, Perene! '
E Sandro Nagi ? Non si sa ch’ei diviene.
Damjanic, Olic, Kiss, Csani mirate
Uccisi! o figliuole ungheresi, danzate!
E Szacsve? come tutti gli altri, ammazzato‘!
Il fior del paese ch'è mai diventato?
Or chi si nasconde nei boschi più cupi?
Cittadin’ sanguinanti, simili a lupi.
Il nostro Kossuth, secondo figliuolo
Di Dio, sulla patria sua piange in un suolo
Stranier; ma il Messia vicino aspettate...
O figlie ungheresi, aspettando danzate!
Ballate ballate, non datevi pene!
Poi che nel paese gli affari van bene;
In forca si son le catene mutate;
O, della mia patria, su, figlie, danzate l
O figlie ungheresi, danzate danzate!
È già qualche tempo che voi non ballate!
Son luoghi ridenti le terre magiare,
Or si che dovete voi tutte danzare!
L’articolo X della legge del 1790, garantisce talmente la patria del Kossuth che l’Ungheria è un paese libero, indipendente in tutto il suo sistema legislativo ed amministrativo. In virtù di questo articolo e del temperamento nazionale, gli Ungheresi sentironsi rinfocolare nell'animo una fiamma che dà foco alla terribile miccia della rivoluzione. Ai 17 settembre 1847 si pubblicarono delle lettere convocanti la Dieta ungherese pel 7 novembre seguente. Ed ecco un Comitato di apposizione a Pestht! Il Petófi, acceso di verace amore per la patria, si mise in mezzo etolse a patrocinare la causa del popolo: il conte Teleki egli ebbe a compagno. Le aspirazioni democratiche di, lui erano un sentimento non mica ‘malignamente sistematica e settario, ma una virtù con‘ cui sul nascere ogni anima franca e liberale a modo. Venne il di dell'elezione, e trionfò il liberalismo: intanto Melchiorre Lonyai suscitava un movimento impopolare. Guai ai popoli che credono far meglio abbandonare le arene, ove affondano i piedi, e camminare sulle croste vulcaniche: poverelli non sanno che sotto quelle croste, le quali sembrano dure e massicce, si asconde la morte! Che rumore, che ruina! Parigi si rivolta: Luigi Filippo abdica: la Reggenza è ricusata: la Francia proclama la Repubblica: l' Europa è tutta elettrizzata. Che diavoleto! ‘l’ uragano popolare curva le teste coronate, come il vento la cima delle biade, e le corone vanno disperse; per contra, i popoli cadono al rizzarsi delle teste coronata. Maledizione a chiunque inganni e si faccia ingannare! la terra è una voragine. ‘da cui tutti sono asserti: il più felice è chi non muoia a poco a poco! il più buono è chi ha meno vizi! La Dieta a Presburgo operava ; gli scienziati e gli operai fremevano; le czarde (bettole) risuonavano di evviva: e al caffè dei giurati Petófi, Vasvàry e due‘ altri scrittori, Maurizio Jokai e Bulyo'vski propongono una dimostrazione. A domani dunque, dice Petófi separandosi dagli amici, quando ciò non sarà che per calpestare sotto i nostri piedi qualche aquila a doppia testa. Il‘15 marzo 1848, i quattro amici si rividero al caffè, si abbracciarono e corsero all'università onde raccogliere la gioventù studiosa ed eccitarla ad opre ardimentose e somme. Era per tutto quella frenesia , che sol si comprende quando si sia vista o si stia vedendo: il popolo gridava, e in mezzo a quel gridio ebbrifestante udissi un Eljen(evviva) al nome del Petófi, a cui si accompagnavano i nomi della Patria dell'Eguaglianza e della Libertà. Che paradiso, quando gli uomini pensano e fanno come dicono! Il Petófi era veramente degno di stare fra quei nomi venerandi. Per tanta popolarità, virtù propria degli uomini singolari, il Petófi insieme a Jokai, a Vasvàri , a Bulyovski e ad Egressy venne eletto membro del consiglio popolare, ed allora l'agi tazione rivoltosa andò crescendo sempre con quel tenore che vien dettato dalla bontà dei capi. L’ opposizione impopolare metteva ostacolo a tutte le aspirazioni degli uomini dabbene; ma l'anima di Alessandro Petófi in una alla diligenza di Paolo Vasvàry promovea la rivoluzione, affinchè la patria avesse veduto un albòre di più luce vestito. Ed in quel punto si in che il poeta del popolo dettava in mezzo alla rivoluzione quei poemi, i quali si debbono piuttosto dire improvisati che meditati; imperocchè il ministero dell'arte veniva soffocato dalla rabbia dell'animo agitato innanzi alla tre menda idea della nazionale redenzione. Il 45 marzo può farne fede, poichè ivi si legge quel sublime pensamento, apprezzato e vagheggiato dai pochi solamente, i quali amavano la patria non per goderla essi soli ma per renderla un territorio di uguale pertinenza sia ne’ buoni sia ne’ mali frutti. Il carro rivoluzionario avanzavasi: venivano proclamati a Pesth Dodici articoli, pei quali il fior del liberalismo sembrava più crescere; intanto la parte avversa, che sempre v'ha fece molti ostacoli.
Il 16 marzo diceasi che il Petofi, capo di trentamila cittadini, procedea contro la truppa imperiale; e subito si scelse una deputazione ‘onde calmare quella gente entusiasmata dal genio di Alessandro. Il 19 Marzo vennero dalla capitale dell'Ungheria delegati, onde far vedere che i Dodici articoli erano la più perfetta espressione dei voti del popolo. Il Kossuth rispose con un discorso, in cui fece vedere che tutta l'Ungheria non era formata da Pesth; perciò si fosse badato all'intenzione del miglioramento nazionale ed a null'altro. Questa risposta fece qualch'effetto: e Vasvàry. Petófi, Perczel con due o tre altri. impazienti mostrarono diffìdenza dei deputati aristocratici, poichè osservarono molta lentezza nello svolgimento delle cose nazionali. I democratici tutti tennero bordone a quella sfiducia. I torchi mossi dalla libera forza dei tempi, giravano senza rattento; ma, (come sempre succede in tutte le mutazioni governative, le quali quanto più sono leste a dire e promettere libertà, tanto più son leste a negarla strozzandola) uscì un decreto che chiunque avesse voluto pubblicare un giornale, dovea versare una cauzione di venti mila fiorini: va a dire che non sieno i denari i migliori amici, e tutto si riduca a denaro! Misera umanità! come? se quel che si stampa è vero, perchè punirlo? se falso, perchè la cauzione di venti mila fiorini legittimarlo o assolverlo?... Intanto sotto la forza di un decreto il dritto della stampa veniva abolito o per lo manco‘ svigorato. Fu un bel chiacchierlo! Il Petófi arringò fortemente innanzi al Comitato di sicurezza pubblica , ed il suo amico Emerigo Vachott mandò alle fiamme quel decreto in mezzo la piazza dell' Albergo Municipale: la folla ivi stivata ruppe in violenti e frenetici applausi. Vasvàry si condusse a Presburgo, ove non fu accolto tanto bene dall'istesso Kossuth {però la cauzione fu abbassata a dieci mila fiorini. A ‘23 Marzo, il conte Luigi Batthyany presentò alla Dieta i nomi dei cittadini chiamati da lui sull'iniziativa del Palatino, a comporre il ministero ungherese. Il Ministero contentò la Dieta; ma il buon re non troppo si mostrò soddisfatto; si agi fra la Dieta e il Palatino, fra il Palatino e il Re; e gli andarivieni del Palatino da Presburgo a Vienna, conosciutisi a Pesth, furono materia di sospetti negli animi dei democratici. Si volea ricusare all'Ungheria il maneggio de’ proprii fondi e la libera disposizione delle proprie truppe, cioè, le due più solide guarentie dell'ungara indipendenza costituzionale. L’sospetti cominciarono a farsi realità: e le conquiste di Marzo erano messe in questione. Dall'alto del Terrazzo del Museo Vasvàry. avvisava il popolo a starsi in sentinella: Maurizio Perczel accusava la Dieta di debolezza e proponeva una convenzione nazionale. Alessandro Petófi lanciava in mezzo alla turba quel motto: Un re amato non v'ha più! ed armandosi della satira scrisse:-il Ladislao Ben Bene, tanto avverso al realismo; similmente compose il Re ed il servo fedele, di cui migliaia e migliaia furono venduti gli esemplari. La faccenda diveniva seria; il foca da piccoli carboni accesi diventava un incendio voracissimo. Perczel e Giovanni Farkàs andarono da Kossuth e dagli altri deputati più popolari onde proporre loro di mettersi alla testa del popolo in Pesth. Si freme da tutte parti; a'29 Marzo, il Palatino va a Pesth per esprimere la volontà reale; Luigi Batthyany offre la dimissione sua e degli altri ministri proposti da lui; Kosésuth irruppe contro la burocrazia, e fece dichiarare alla Dieta che essa non mai si sarebbe rimossa dalle leggi votate. Il Palatino parti per Vienna, portando l‘ultimato dietale, e il ministero spedì due delegati, Nyary e Szemere, affinchè non si ribellasse la capitale. Gli spiriti ardevano d'ira e minacciavano ruina: infiammati da Petófi, da Perczel, da Vasvàry: e da Palfy, i giovani ungheresi si scatenarono a mille a mille gridando, allarmi all’armi! Si avanzava l'insurrezione, crescendo divenia sempre più compatta e serrata, e il popolo vittorioso cercava organizzare un novello regime. Il Palatino Stefano si volea da molti borghesi mettere al trono. Petófi , Vasvàry e i loro amici desideravano la repubblica, ma poco erano compresi. L’ impero e la Dieta volevano venire ad accordi; Irànyi espresse nettamente ma con moderazione il suo scontento: solo il Petófi mal frenando il suo sdegno, alzò la voce: Io, io non accettole transazioni della Dieta. Io non voglio esser minchione.... Voleva egli confessare schiettamente e pubblicamente la sua fede repubblicana; ma gli amici lo ritennero. Ei nell‘atto di lasciarli, furiosamente sfoderò la sua larga sciabola e puntandola sulla tavola, riprese gridando: Io l'ho sciolto, io non lo rompo... ma io lo serbo I... oh! il grand’animo di Alessandro; in tanto tumulto ei da cittadino e magistrato popolare subito diveniva poeta, ed invitava il popolo al riscatto de'proprii dritti. Da tanti rivolgimenti e turbolentissime esasperazioni popolari altro non dovea nascere che guerra. L’Austria imperiale cercava il suo meglio, e fomentava una guerra sociale; nel 1848 e 49 s'ingaggiò una guerra spaventosa tra i Croati, i Serbi, i Valacchi, i Sassoni e i Magiari. ' Quando i savi della Boemia inventarono il panslavismo, cioè tutti Slavi, la questione panslavistica diventò per gli Ungheresi una questione di vita o di morte, come Kollar lo asseri nel suo poema, La Vergine slava. L'Austria difese alquanto il panslavismo; poichè si avvido far più paura i Magiari che i Panslavisti. Allora si predicò l'Illirismo, cioè l'unione degli Slavi del mezzodì, organato da Luigi Gaj ad Ayram, sotto la protezione del gabinetto di Vienna; nell'istesso tempo il Tehekkismo, cioè unione degli Slàvi del centro, veniva avversato. Tutti tutti erano in collera, popoli e imperatori con’ tendeano fra loro: Radetzki ed Jellachich fulminavano; lo Czar, minacciatore dell'Europa repubblicana, incolleriva e ruggiva come leone; Petófi scriveva nel mese di Maggio 1848 , quella terribile canzone: l'Oceano s'è risvegliato! Alla guerra! e le madri mandano i figli a combattere per la patria; le fidanzate rimetto no il loro matrimonio al di dopo la battaglia; le giovanette amano solo i difensori della patria; i giovani sposi ripetono ciò che Petófi loro ha imparato: La mia donna e la mia sciabolo. Nel mese di Giugno si venne all'elezione dei deputati alla prima non aristocratica Dieta di Pesth. Petófi non venne eletto, perchè essendo vergine di servo encomio e franco apostolo del suo libero pensiero , fu creduto qual perturbatore della pubblica pace! .Vi furono al solito molti raggiri; ma la sua nobile anima non si curò dei giuntatori sociali, sebbene poco man casse che egli non fosse venuto a duello col rivale , il quale ricusò tirarsi alla pistola. Egli si poteva vendicare de’suoi nemici con la penna ‘quante volte ricusavano essi battersi con qualunque arm'a, ma sitacque per altezza di principii morali e politici. ‘Agli 8 agosto, il re bramando riorganeggiare ‘le milizie, voleva fare in modo che l'Ungheria avesse svantaggiato assai nella sua pubblica sicurezza. Vorósmarty, a cui nel 1846 il Petófi dedicò la prima edizione de'suoi versi, votò con la maggioranza: allora Alessandro si scordò del‘ l'arte e fulminò il Vórosmarty con una satira tremenda. Gli amici non desideravano fargliela pubblicare, perchè egli n'era stato ammiratore, era stato protetto: ma il poeta repubblicano fu inesorabile e mandò ai torchi la terribile canzone contro l'illustre lirico. A quella canzone ei fece precedere le seguenti parole a professione di fede politica : Molti ànno voluto impedirmi di pubblicare questa poesia.- Malgrado loro. l'ho pubblicata, e, qualunque ne sia l'effetto, io non ne posso niente. Sono io che provo il dolore più profondo, io che mi son visto forzato a scrivere questi versi contro Vórosmarty, cui amavo e stimavo tanto e più che tutti quei che lo stimano e lo amano. Ma io, io amo i miei principi assai di più! Quantunque me ne pianga il cuore, io devo re stare insensibile. Bruto pugnale‘ il suo benefattore, suo padre. Se io condanna Vòròsmarty, è un sagrificio inaudita ch'io faccio a' miei principi. Grande ch’ei sia, son pronto ancora, ove abbisogni, a farne una più grande per voi, o miei principî adorati!
‘Il re non assentendo ai voti del popolo, l'Ungheria si convelle tutta quanta e più delira fremente nell’ incendio della rivoluzione. Va una deputazione dietale a Vienna, i giovani che l' accompagnano, al ritorno si appntano il nastro rosso. I Redattori del 15 marzo compresero tutto, e il Petófi fe la ballata di Uniade Laszlo. ‘ Suona l'ora della guerra , e il Petófi da un lato la lira dall'altro la spada , corre soldato volontario alla difesa della nazione. Egli meritò il grado di capitano al ventisettesimo o al ventottesimo battaglione degli Honvéds (difensori della patria) per i due anni di servizio militare, e per la istruzione ch’ei dava ai giovani commilitoni. Che momenti terribili! Sotto Moga. sedici mila Ungheresi fermarono trenta mila austro croati del principale corpo d’armata di Jellachich a Pakozd, il 29 settembre. Frai persecutori ‘di Jellachich vedeasi ancora il vecchio padre del Petófi: oh! il giovine poeta come ha immortalato la patriottica devozione dell'oste macellaio nella poesia: Il vecchio gonfaloniere. Alessandro si distinse per valore, poi stanco e travagliato dai disagi della guerra, durante le cinque settimane che passarono dalla battaglia di Schwechat all'invasione di Windischgraetz, lasciò il suo battaglione per andare a visitare sua moglie ed assisterla al parto. Quanto egli amava la sua Giulia’! e pure la lasciò per l'Ungheria! Venuto il proclama del principe maresciallo Windischgraetz, il Presidente della Dieta lesse la seguente lettera: Cittadini deputati, un poema può avere una grande importanza, ciò è provato da una lettera di un generale francese che scriveva alla Convenzione o mandargli dei soccorsi considerevoli oppure un'edizione della Marsigliese. . Se voi trovate il mio poema assai elettreggiante, fatelo pubblicare in tanti esemplari in quanti noi lo giudicherete utile e distribuitelo a tutte le armate. Quanto a me, desidero almeno combattere coi miei canti, poiché le circostanze m‘ impediscono di prendere altrimente parte alla battaglia. Il poema, Canto di guerra, era unito alla lettera: l'assemblea nazionale lo ascoltò, e commossa vivamente, unanime ne votò l’edizione; Che mirabile canto!. la Marsigliese e il Canto di guerra sono due inni sublimi. Il 15 dicembre 1848, Giulia Szendrei partori un bel bimbo, a cui Alessandro compose versi di amore e di politica , ‘come sentiva in quei tempi l'anima sua. La patria pericolava, ed egli non si fermò presso la sponda del letto a guardar sua moglie ed il suo infante. No; il suo Canto di guerra echeggiava fra i monti, egli ghermi la spada, e corse ardentissimo di patria carità a difendere i dritti del popolo ungherese. Bem, uometto di membra delicate, crivellato di ferite, trascinando a’ pena la destra gamba, non mancava di attività: ei’serbava quel fare energico e penetrativo che si acconviene ad un capo d'armata. I suoi compatrioti polacchi, invece di gloriarsene, lo calunniavano; ma il suo carattere era sempre inflessibile a qualunque “torto o’ ingiustizia umana. Arrivato a Szilagy 'Somlyo, riuni tutti gli ufficiali e loro disse in alemanno: Signori, io esigo da voi la più stretta obbedienza. Chiunque non obbedirà, sarà fucilato. Io saprò 'ricompensare ma saprò anche punire. ' A’ 18, 19 e 20 dicembre, gli Austriaci furono da Bem respinti e disfatti a Deès: ond'è che a Kólosvar le donne andarono ad incontrare il loro insperato liberatore. Tutti gli uomini inebbriati di fervente amor patrie, cantando la can zone del Petòfi a Bem, corsero alla bandiera dell'invincibile Polacco. Segretario e confidente di Bem era il capitano Petófi, che in tutte le battaglie ed in tutte le marce gli era sempre compagno intrepido e fedele. Il valore della mano e dell'ingegno era singolare in persona di Alessandro Petófi; la onde non fia maraviglia che questo sommo poeta soldato di tanto in tanto addiveniva orgoglioso, massime innanzi a chi non lo voleva riconoscere o fingeva di non conoscerlo. S’imbestialiva, e n'aveva ben donde; poichè certe bestie umanizzate meritano di essere ' imbastate oppure frustate a più non posso. Quantunque questo esimio poeta della rivoluzione ungherese si mostrava sovente aspro e insocievole, pur dopo aver onorato il Bem con un saluto della sua musa peregrina, guardò i soldati, e si sentì vate di nuova lena. Allora mirabilmente ci cantò: Onorate i semplici soldati. Bem e Petófi si amavano: il Bem amava tutta la sua armata come la sua famiglia ma prediligeva i Siculi. Ognuno era contento del suo capo; gridavano: Eljen Bem apank (viva il nostro padre Bem). Alle porte di Szepsi-Szenta Gyargy‘ vennero le donne più nobili e più belle del paese siculo, onde ricevere l'illustre polacco. L’eloquente Amelia Szoercsei, Polissena Benkoe, sposa del bravo Alessandro Gal, la signora Gyarmati che conduceva ella stessa a guerra suo figlio quindicenne, finalmente, a tacer di molte altre, la signorina Ester Lazar, che avea preso parte all'assalto di Nagy-Szeben, crebbero la bellezza del banchetto in onore di Bem. Costui non capiva tanto bene l’ungherese; il suo fido segretario Petófi gli era turcimanno. Fu tanta la pienezza del contento che il Bem rientrando le sere nel suo campo, esclamò: Che popolo!.. mi ha fatto passare il più bel giorno di mia vita! E Petófi in mezzo a si eccessiva esultanza, scordava gl’infortunati tempi della sua primissima giovinezza, ed ebbro di vittoria non potea darsene pace; sognava un trionfo eterno e cantava come l’ispirava allora il genio fidente a sereno e giocondissimo avvenire. Ei sognava , e al 1849 celebrava con una canzone piena di vita e fede patriottica, l’anniversario della rivoluzione. Che fibra è quella del popolo ungherese! Non si maschera facilmente un’indole schietta e selvaticamente semplice; dai lampi dell'ingegno si può scorgere la natura di una patria. Si dia uno sguardo a cotesta poesia che segue, e si vedrà quant’animo, congiurato a danno dei mali rettori della terra , domina i Magiari. Questa poesia fu attribuita anche al Petófi; ma vuolsi che sia opera di un bandito, a nome Adolfo Gzur man: era tanta e tanta la popolarità del Petófi che ogni bella e cara poesia, ov’era trasfuso sangue e spirito, veniva giudicata opera di lui.
CUI TANTO E’ CARO
IL CULTO DELLE ITALICHE SCENE
Chi è là che vola sovra la pianura?
Mugghiata -è la tempesta a l'orizzonte;
Chi è là che corre, come fosse a volo,
Sopra il dorso di un rapido cavallo,
‘A le cui zampe il suol trema ‘di sotto?
Dei ‘neri corvi sono manco nere
L’ ala, che i suoi capegli; l’orifiamma
Va fluttando. Il vessil bianco, a rossi
Ricami, sciolto ondeggia all'aria aperta ,
Con la brezza folleggia il suo gabbàno.
‘Del suo brun’ occhio i folgorosi guardi
Guizzano dall’inferno o pur dal cielo'!
E la possa di Satana o di Dio
Che lo sguardo fantastico gli ‘accende?
Pallida è il fronte suo, di marmo sono
I tratti, e nulla non v’appar di sdegno
Nulla di gioia. ‘Il suo labbro e sottile,
Ed il suo muto glacial sorriso
È di un cadaver, della tomba evaso.
Ma il suo destrier, la bocca insanguinata,
Or più non obbedisce a la pressante
Briglia... L’ ignoto sferza ed il destriero
Galoppa... infuga, il di non è più presto.
Si stende sovra i campi alta la notte...
Esso galoppa... «Corri, o mio cavallo,
Ei dice, corri! avanti! sempre! sempre?!
La tua meta è li basso! corri! e tosto
Ci poseremo! » Al raggio de la luna
Galoppa... dietro a lui corron longhe ombre,
Spiriti de‘la notte, che s'accanàno
A mordare ogni passo del notturno
Pellegrin... Ma s’ arresta...e' sopra il suolo
Salta, e, il sudor da la sua fronte terso,
Va il suo cavallo giù dentro un fossato
A nascondere. Ei guarda su la Pusta
Tutto intorno. Non vede nulla...nulla...
Dormono tutti i vivi. Egli soltanto
È là che in su la schiavitude ei pensa ,
Con il vento che chiocca, come frusta,
Con il frosone e il suo pianto selvaggio.
A precipiti passi andando, ei move
Per desiato loco arcan.... Ma un corso
D’ acque il cammin gli barra... È colorata
Di rosso sangue l'erba de la sponda.
L’ attende un battellier, spettro impassibile
Che parola non dice, a mala pena
Forge un saluto, il suo cappel sfondato
Agitando... Su monta il pellegrino,
La barca sdrùcciola. Su l'altra riva
Trepido scende, divengon mal fermi
Gli arditi passi suoi, per tutto il corpo
Scorre la febbre, il cèrebro gli scotta,
Gli si solleva il cor... Tocca ha la meta...
Rimpetto ad una chiesa. Ah! non è a Dio
Che s'innalza la chiesa sacrosanta!
E non è questo il loco ove i beati
Vengon grazie all' Altissimo rendendo.
Ha per cupola il ciel la santa chiesa,
Sono gli organi suoi, de l' autunno
L’uragan; quella non possede mai
Nè campanil nè croce... la guardate!
E’ son nuovi patiboli! A’ dintorni
Cantate sino a tredici
Tredici grandi cuori seppelliti
Giaccion ivi, la gloria fu lenzuolo
Mortuario per lor, son tutti morti
Per la patria pregando.
Il Pellegrino
Sospira e cadon giù dagli occhi suoi
In gravi stille due diamanti. Il ghiaccio
Si solve al l'eco del suo cor; e in questo
Lamento rompe: « Si è sconvolto, o mondo,
L’ ordine tuo? Che fa la tua giustizia,
o Ièova, perch’ io vivo e i migliori
Ungheresi qui giacciono sepolti?
Quand’ in m’era il terrei de la pianura,
Quando erravo da l’ uno a l' altro polo
Una luce di ciel mi scintillava
Ne l’anima, e tacca cose infernali.
Delitto suona e maledizione
Il nome mio. La terra, che ho premuta,
É maledetta, lì non più la brina ,
Vi casca la gragnuola; non più fiori
Di rosa... invece v’ha note di sangue’.
E intanto io qui passeggio, mentre voi,-
Fiore dei più magnanimi sul palco,
Periste! ancora Iddio governa il mondo?
Si, Dio governa il mondo e fa ch’ io viva.
A me la spada della sua vendetta!
Deggio i cani di sangue e loro razza
lo sterminar... Di Dio sono la spada!
Misericordia non aver, Signore,
Di me, se io manchi al giuramento mio.
Ma s’io mi tengo al giuro, un sol delitto
Per ben dieci vendette sia scontato»
Ed improvvisa da l’eterea volta
Di Dio la voce viene al pellegrino:
«E sia. Redimi tutti i tuoi delitti!
Sia scontato un delitto, un sol delitto
Per ben dieci vendette! »
Il Pellegrino
Al suo cava! ritorna. Eccolo a capo
De l'opra sua! ..Ma quel vendicatore,
Chi è mai così terribile? Gli‘ è Rosza
Sandorre, il Masnadier della Pianura!
Il Petófi non era uno di quegli uomini che si faccia domare agevolmente, poiché aveva uno spirito eminentemente repubblicano. Nell'entusiasmo delle vittorie era familiare più coi soldati che con i capitani, anzi egli, duce dei difensori della patria, dimenticava tutti i capi della truppa, e, amando con molta dimestichezza i semplici militi scriveva l'Honvèd (il difensore del la patria) poesia, colma di grande amor patrio e di forte sentimento rivoluzionario. Il poeta della Pdsta, non pensava, non scriveva, non combatteva solamente per l'Ungheria ma per tutto l'universo, essendo ch'egli era il più fervido patrono dei popoli. Scorreva campagne, saliva monti, e con l'animo concitato non vedeva intorno a sè altro che amore per ogni paese e per l'arte, di cui l'animo suo era sempre ardente. Fu tanto innamorato del popolo che non v'era battaglia in cui non si vedeva audace e indomito soldato. Oh! quella singolarità di coraggio gli fu causa di morte; se fosse stato meno imprudente e più cauto nell’irruzioni guerriere, forse tutto di avrebbe l’Europa un genio di poeta veramente divino. Dal 15 aprile al 48 maggio, il Bem fa una campagna gloriosa, detta di Transilvania; e fa tanto il nome del vittorioso Polacco, che i Magiari lietissimi e riconoscenti diedero ad una delle montagne, appellata Franszenberg, il nome di Bem-hegy, che in loro lingua suona Monte di Bem: bello attestato di un popolo riconoscente Durante questa pugna, il Petófi si era sempre mai distinto ed aveva acquistato il grado di maggiore. Per tante sofferenze erasi fatto cagionevole; da ciò il bisogno di andarsi a rimettere in salute su i monti di Bada. In questo viaggio egli incontrossi co’ due generali, Meszaros e Klapka, i quali tennero con lui discussioni tali, che s’ei non fosse stato un poeta sarebbe stato punito ben bene come maggiore. La causa della sua disputa col Meszaros fu che il Petófi non volle mai portare una cravatta. Il poeta maggiore si presentò al vecchio ministro della guerra con il collo scoverto; costui lo rimproverò non poco, quasi quasi l'avrebbe voluto mettere agli arresti. Il Poeta, offeso di quell'amara ingiuria, subito dètta contro il superiore una satira mordace. Meszaros la trovò cosi spiritosa che sbellicò di risa e la mandò in giro. Traversando le armate senza foglio di via, il poeta fu arrestato agli avamposti e condotto innanzi a Klapka. Ove andate voi? gli dice costui - A Bada , ei risponde. Avete un congedo? Si - Chi ve l'ha dato? - Il mio capo, general Bem. Benissimo; mostratemi le vostre carte. Io non ne ho. Come? Certamente Bem mi ha dato il congedo di viva voce. L’è non regolare, sono in dritto di credervi o non credervi. Io non mentisco mai e la vostra supposizione è offensiva per un onestuomo, per un official superiore. Chi vi ha nominato maggio re? io non vi so’ che capitano... Io non sarei si vile da coprirmi di un collare d'oro che non m’apparterrebbe. Bem mi ha nominato maggiore sul campo di battaglia, come generale in capo ne avea ben dritto. Non è colpa mia se la mia nomina non è arrivata ancora al ministero... Giovane, gridò Klapka, cangiate tuono col vostro superiore perchè se io non considerassi il nome che portate, avrei già perduta la pazienza. Ma voi siete il poeta Petófi? -Si. Conosco le vostre poesie, le stimo... Potete dunque contare sulla mia protezione... Non ne ho bisogno... La pigliate cosi. E bene! vi ordino ritornare immediatamente al vostro corpo. Io ho il mio congedo, ne profitterò. Se ne andò il Petófi; e da Szolnok scrisse a Klapka. Se voi dopo qualche giorni siete generale d'armata, sappiate ch'io già sono dopo parecchi anni il generale dei poeti. Per conseguenza la vostra protezione non mi è utile. Pascia inviò la sua dimissione. Però chiamate a Debreczen, egli ebbe una riprensione e conservò il suo grado di maggiore. Intanto, rimasto libero, secondo il vecchio uso degli Ungheresi viaggiando senza passaporto, fu trasportato innanzi ad un segretario comunale, che gli dimandò: Chi siete voi ? Son Petòfì…Petti…. Petófi...Non conosco alcuno di questo nome qui nel comune nè nel comitato... L’imbecille ... E se voi non avete passaporto, va bene! non tirerete più lungi! Il Petófi fu imprigionato, malgrado ch’ei beffavasi del notaio, ignorante del nome suo; poi vennero degli amici e lo trassero fuora. Andò più avanti, e non volle più manifestare a chiunque la richiedeva, quella carta di schiavo, (il passaporto), orgoglioso repubblicano persino in faccia alla legge. Pertanto‘ la forza supera il dritto e il sentimento; il Pettofi qualunque paese traversava, bruscamente cacciava le sue carte, poichè aveva in mira di arrivar subito a Buda ove lo aspettavano la moglie e il suo bimbo, il vecchio padre e la mamma vecchierella. Arrivato ad un paese, un notaio, posto il suo suggello, lesse e rilesse attentamente; poi esclamò: Che! siete voi!.. Siete voi Sandro Petófi! Ah! benedetta l’ora che mi è stato dato vedere il più gran poeta del mio paese!.. Quel buon ’ vecchio notaio pianse di gioia come un‘ ragazzo; e il Petófi si conciliò alquanto coi notai, ma non potette amare i generali. Ei diceva spesso di costoro. Non ne ho conosciuto che quattro, e son cruccioso con tre! Rivide i suoi, edabbracciatili, se li baciò cari cari! Che anima esemplare di liberalità e intemerato repubblicanismol la morte non gli mettea paura; soltaanto la perdita dell’ onore era la sua morte affannosa e temuta. Dei Petófi qualcuno se ne ha sulla terra!...Si approssima il di fatale. l Russi intervenivano; Vasvàry, l'ardentissimo amico del poeta, l’amico di tutti i popoli, il repubblicano universale, si affretta a morire con una truppa, che egli avea formata dandole il glorioso’ nome di Ràkòczy; Bem, lascia il Banato, riprendendo il comando dell' armata transilvana; e il cosmopolita Petófi, indomito d’ingegno e di core, è il primo a farsi incontro al nemico. Gli Austro-russi nel 16 luglio, rimangono vincitori in un punto. Bem e Petófi fanno una spedizione a Moldavia nel 23 luglio per sollevare i Rumeni; ma tutto fu vano. Il Petofi andò fra i Sìculi, e dopo varii scontri con l’oste nemica , perviene alla terribile sanguinosa e funesta battaglia di Segesvàr. Il vate eroe combattendo e cantando a fianco del suo duce, a 31 luglio si battè da disperato. La sua stravagantissima audacia lo fece sparire fra i nembi della polvere e fra il rumor dei cannoni. Così per sempre dileguavasi un artista singolare, matto di Libertà e di Arte! Bem nel 5 agosto marciando verso Hermanstadt, fe minutamente cercar di Petófi; ma nulla fu trovato, quasi la sua salma fosse stata ridotta in polvere, e la polvere sparsa al vento!! La vedova Petófi, dopo diciotto mesi di tutto, si rimaritò con il figlio dello storico Stefano Borvath.'
Napoli, 15 Aprile 1869.
Dottor Federico Piantieri
GIOVANNI ALAGONA
GIUSEPPE AURELIO COSTANZO
E
ISIDORO CALOIRO
CHE HANNO MENTE PER INTENDERE
E CUORE PER SENTIRE
QUESTE ARMONIE MAGIARE
AL GENIO DI ALESSANDRO PETOFI
Alla perla, che sta nella conchiglia,
Là nell’abisso oceanin sepolta ,
Il mirabile tuo genio somiglia .
Vate, che il proprio cor, cantando ascolta.
Dell’ inquieto mar la perla è figlia;
E’ figlio il genio tuo del cor che molta
Tempesta aduna dagli affetti suoi...
Perla è il tuo cor; son perle i versi tuoi.
Era candida perla il tuo bel core,
Ma della perla il simile destino
Tu non avesti, o nomade cantore,
Cui sol fu duce il suo genio divino.
Alla perla si mise più valore
Che all’affetto tuo santo e peregrino:
Sempre cosi! La perla -è una moneta;
Un sospir la parola del poeta!
È un sospir, del poeta la parola?
E di sospir qual anima è capace?
Qual'ala d‘ intelletto agile vola
Sui pini e sull' issopo? Ah, il fior di pace
Nel cor del vate non mai trova aiuola .
Chè non v’ ha brina, e il zefiro vi tace!..
E’ passeggiero il suon della moneta;
Eterna è la parola del poeta !
È sacro il tuo dolor, vale magiaro,
E chi nol sente, non lo crede mai:
A me‘, fratello del dolor, sei caro,
Per dolor t’ amerò come t’amai.
Io t’ amo si, chè assai ti seppe amaro’
Il vivere fra mezzo a tanti guai!...
Tu non curi il dolor nè la moneta;
Sei sempre altero e libero poeta.
Tutto soffristi, o gran vate sdegnoso,
Di cinque lustri nel tuo breve giro;
Fin del pane tu fosti bisognoso,
No per fame tu desti un vil sospiro,
Non mai godette un‘ora di riposo
Per sommi affetti, il tuo spirto deliro.
Povero mesto abbandonato e solo,
Il genio sol ti fu compagno al duolo!
Di landa in landa, come il cor ti dice,
Tu vai peregrinando senza posa ,
Irrequieto , come alla pendice
Il vento , che l’odore della rosa
Con sè porta e l'olezzo del larice;
Ti è sol compagna l'anima sdegnosa:
La bufèra sta su gli omeri tuoi,
Nè tu corri a picchiar la porta altrui!
Superbo di, te stesso, altro non senti
Che la forza del tuo vasto pensiero;
Orgoglioso ti chiamano le genti;
Nè san che verecondo il tuo sincero
Petto, ond’esciro i più nobili accenti,
Per soverchia virtù si mostra altero?...
Eran tre di che ti mancava il pane;
E più fatal sorgea la tua dimane!
Quant'è 'difficil rinvenire un core.
Simile al tuo, sdegnoso e in un gentile!
In volto hai de la fame lo squallore,
Fame che ti fa‘ macro e mai non vile.
Del genio peregrin l'almo pudore
‘Vive al decembre suo, come all' aprile!...
Più che a viltà piegar, con fronte lieta
Corre alla morte il libero poeta.
Ogni alma, che d’amar' s'ente desio,
Non irride all'altezza del poeta,
Ma plaudendo al povero dir mio,
Nella luce del ver s'imbianca e allieta.
Pensi ognuno a sua posta...A tutti Iddio
Diè un pocolin di forza e molta creta :
Oh, quella creta è ben troppo pesante,
Se a muoverla non v'ha forza bastante !
Ma tu, genio dell'ungare contrade,
Interprete del cor, (abisso eterno
Dove sguardo mortale indarno cade
Nè scovre fondo in mezzo a tanto inferno),
Hai tanta forza ch’all'avverse spade
T’immoli, e del tuo cor fai mal governo...
Il gran genio dell'ungaro cantore
Per la patria sagrifica il suo core !
Argomento di duol m'è la tua sorte,
o libero poeta di Ungheria ;.
Ma !... se si falla? Il mio spasimo è forte
Mentre amo anch'io la dolce patria mia!...
Su via tutti corriam... corriamo a morte
Quando il bene di tutti si desia..
Ma poi chi sale? il più- loquace. e i frutti
Ciba del sangue altrui del mal di tutti.
Vero genio di libero cantore,
Fosti solo, quanti eri poverello ;
Ed or che ridi in mezzo allo splendore
Delle ricchezze tue, lasci l' ostello
La moglie, il figlio, ed al tuo patrio amore
Consacri di tua vita il fior più bello ?...
Il libero cantor sia benedetto;
Il genio vive, il cor morì di affetto!
Napoli, 26 Dicembre 1868.
FEDERICO PIANTIERI
(a cura di Emilio La Greca Romano)
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