Il ministro dell’Ambiente Clini ha promosso per il 7 - 8 novembre 2012, durante la Fiera di Ecomondo a Rimini, un evento nazionale unitario delle numerose e diversificate imprese ed organizzazioni di imprese, riconducibili ad attività economiche con rilevante valenza ambientale.
Questa piattaforma programmatica verrà presentata alle istituzioni, agli operatori del settore e alla società civile.
La crisi mondiale in corso ha accelerato la convinzione che il modello economico dominante ha fallito su tutti i fronti. Povertà, fame, inquinamento, cambiamenti climatici, conflitti sociali sono sotto gli occhi di tutti: è quindi necessario cambiare radicalmente il paradigma dell’economia.
La crisi mondiale è pertanto un ‘occasione irripetibile “per promuovere, insieme, un nuovo orientamento generale dell’economia italiana, una green economy appunto, per aprire le porte a nuove possibilità di sviluppo, durevole e sostenibile”.
I gruppi che lavoreranno durante l’evento sono otto, tutti molto importanti e intriganti, ma dovrebbero essere, a parer mio, nove. Manca cioè il più importante: il controllo delle nascite, ovvero la decrescita della popolazione umana.
Il più importante dicevo. E cercherò di dimostrarlo.
Da quando il reverendo Malthus pubblicò nel 1798 il suo famoso “Saggio sul principio di popolazione” che influenzò, tra l’altro, la teoria dell’evoluzione per selezione naturale di Darwin e Wallace, il mondo della politica e dell’economia entrò in fibrillazione.
La storia si può fare iniziare negli anni Sessanta del secolo passato. La popolazione mondiale aumentava, e il cibo non era sufficiente? La fame e la povertà incombevano? Il problema viene, o meglio si crede che venga risolto definitivamente, intensificando le attività agricole su zone già coltivate o ampliando la coltivazione anche in aree ambientalmente meno adatte.
E’ la Green Revolution, la rivoluzione verde . “A dispetto del nome, di verde aveva ben poco: si trattava infatti di un programma per incentivare l’agricoltura intensiva, l’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici e il ricorso a semi ibridati”. Purtroppo i politici le industrie i tecnici che hanno voluto queste innovazioni non hanno tenuto conto delle preoccupazioni dei soliti ambientalisti che pronosticavano sul periodo medio-lungo l’innesco di fenomeni di salinizzazione, desertificazione, degrado del suolo per erosione comportando la perdita di terreni estesi nei quali sono stati compiuti anche ingenti investimenti.
Il risultato di questa rivoluzione nell’agricoltura? Dai dati dell'Unep - United nations environmental programme- risulta “che dei circa 5 miliardi di ettari utilizzati in agricoltura in aree semi aride o prospicienti ai deserti, ben il 70% circa di questi è già degradato e gran parte soggetta a desertificazione o è a forte rischio”.
Non si è voluto tener conto della teoria “cupamente pessimistica” di Malthus. L’incremento demografico è sempre più rapido di quello dei mezzi di sussistenza e la povertà e la fame sono destinati fatalmente ad espandersi. In più si deve aggiungere l’ignoranza di fondamentali leggi ecologiche. La natura non si può piegare indefinitivamente ai bisogni umani.
Siamo negli anni Novanta, i problemi sociali e ambientali sono in crescita e in tanti versi risultano drammatici per i cambiamenti climatici che, tra l’altro, non vengono attribuiti a cause antropiche, e spesso negati.
Il problema della riduzione delle nascite è ancora sottovalutato o addirittura negato. E’ invenzione dei soliti ecologisti catastrofisti. Ho sentito spesso destra e sinistra affermare che il cibo basterebbe per tutti, occorre però una equa distribuzione. In un certo senso è pur vero, ma fino a quando? Mi ricorda un po’ la storiella del serpente affamato che si mangia la coda.
Siamo arrivati alla conferenza mondiale di Rio del 1992 dove si “fa propria la concezione tripartita dello sviluppo sostenibile, concezione che coniuga tutela ambientale, sviluppo economico ed eliminazione della povertà in un equilibrato sviluppo sociale come condizioni fondamentali ed interconnesse”. La popolazione umana – si teorizza - non può non svilupparsi, nel numero e nel mantenimento dei suoi bisogni, basta però che questo sviluppo-crescita umano sia compatibile con l’ambiente, perché le generazioni future – in continua crescita esponenziale – hanno il diritto di godere delle risorse naturali.
Ma di quali risorse i nostri figli e nipoti potranno godere se in tempi non lunghissimi “ci troveremo di fronte al limite delle capacità umane di sfruttare il nostro pianeta” ( U.Bardi – La Terra svuotata) le cui risorse sono finite? Forse si inventerà una nuova rivoluzione trasferendoci in un altro pianeta, come nel divertente film Pianeta verde? Ma si è notato, detto tra parentesi, che nel film non compaiono mai animali, non vola un uccello in cielo? E’ un brutto segno.
Nel terzo millennio si afferma, dopo molte perplessità, la eco economia o greeneconomy. in verità questa possibilità era stata teorizzata dall’economista romeno Georgescu negli anni 60-70. Questa teoria “Bioeconomica” non era per nulla incline “ai facili compromessi legati alle teorie dello sviluppo sostenibile o durevole che hanno affascinato i cultori della economia ecologica in questi anni”. Ci ha messo tuttavia qualche decennio per essere presa in considerazione. Ma c’è voluta la crisi mondiale con il calo in picchiata di produzione e consumi, cioè della crescita economica e del famigerato PIL.
Dunque, l’evento di Rimini a novembre dovrebbe far uscire l’Italia dalla crisi, rilanciando lo sviluppo (il termine crescita è sparito), ma questa volta attraverso una economia verde.
Gli 8 gruppi di lavoro che contribuiranno a definire il “programma di sviluppo della green economy per far uscire l’Italia dalla crisi” sono importanti e intriganti. In realtà per uscire dalla crisi occorre cambiare stili di vita ed è possibile solamente partendo dalle realtà locali, dai comuni virtuosi, laboratori dove si sperimenti un nuovo rapporto uomo-natura.
Ma, in verità, il grande problema (la madre di tutti i problemi ambientali) è la crescita demografica della specie umana, e quindi dei suoi consumi e relativi rifiuti. Al proposito Stephen Meyer afferma che “senza un immediata riduzione del 95 per cento della popolazione umana (un pensiero che ci fa inorridire) non possiamo cambiare l’attuale corso degli eventi, cioè la scomparsa della natura selvaggia”. Meyer è un biologo e la sua preoccupazione principale è la tutela della biodiversità. Conosce pertanto bene come evoluzionista che le popolazioni viventi crescono diminuiscono scompaiono in rapporto soprattutto alla disponibilità di cibo. A meno che non sopravvenga una catastrofe naturale come l’impatto di un meteorite con la Terra.
Uno dei fattori determinanti dei problemi ambientali e sociali del nostro pianeta deriva dalla crescita demografica. Non fa bene all’economia, né quella tradizionale né quella verde.
Di questo cronico problema nessuno ne parla, sebbene tutti lo temono. E’un tabù che più presto possibile occorre superare.
Concludendo, agli otto gruppi di lavoro degli Stati generali si deve aggiungere un nono: la riduzione delle nascite, ovvero la decrescita drastica della specie umana.